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Affiora un “corpo sociale innervosito” ogni volta che nel dibattito pubblico ritorna la questione della giustizia. Progettare giustizia è diventato difficile dappertutto nel mondo occidentale, ma in Italia poi ci aggiungiamo del nostro. Qualche cosa ovviamente non funziona nel linguaggio pubblico e, per quel po’ di illuminismo che ci rimane, è proprio alla grammatica di questo linguaggio che dobbiamo guardare per ritrovare qualche punto di riferimento.

La prima domanda da farsi è dunque di cosa parliamo quando parliamo di processo penale e di contraddittorio e le poche risposte certe sono che il processo penale non è politica sociale, che esso è un meccanismo importante della ragione pubblica dove contano limiti e regole dei poteri, che è scommessa collettiva di una comunità di poter sostituire la violenza e la vendetta con le parole della legge.

Il processo, di cui tanto si parla e su cui tanto si litiga, allora, non può essere considerato altro che il luogo, l’unico, dove si realizzano due esigenze diverse. La prima è la ricerca attendibile della verità di una storia che una legge preveda come reato; la seconda è la garanzia che un imputato si possa difendere dalle accuse mossegli. L’una esigenza esiste in funzione dell’altra, non contro l’altra e insieme entrambe costituiscono l’unico fondamentale criterio di legittimazione della giurisdizione. Questo vuol dire pubblicità e contraddittorio, visibilità e stile dialogante; punti di arrivo che hanno ribaltato un processo inquisitorio dove l’accertamento della verità è segreto e la pena, al contrario, è pubblica (è festa). Lunga storia quella che lega il processo a questa delicata grammatica delle parole che abbandona progressivamente lo stile monologante e sceglie il contraddittorio regolato: del resto non è poca cosa sostituire la vendetta e la violenza con la regola delle parole. Questo strato di senso resiste ed è custodito gelosamente nel modo in cui si parla nella e sulla scena giudiziaria. Si comincia con una denunzia o con una citazione; si procede a verbali, e in quello spazio regolato che è, non a caso, il dibattimento, avvocati e pubblici ministeri procederanno a contestazioni e interrogatori in cui le parti stesse saranno attori (“a domanda risponde”, si legge nelle “carte” processuali). Così, alla fine, in una pubblica udienza e in nome di un popolo e di una legge, un giudice dice il diritto e lo pronuncia in una sentenza. Il giudice più degli altri, si sa, fa cose con le parole e le sue vincolano più delle altre.

Dunque dialogo aperto e libero come ogni dialogo, ma mai disponibile discrezionalmente (la parresia del mondo greco era ambiguamente il dire la verità, ma anche il parlare in libertà). In questo mondo di parole vi è il tentativo di riconnettere il rispondere di qualcosa al rispondere a qualcuno. Compito non piccolo quello affidato al processo e al suo giudice: accertare responsabilità grazie a un gioco dialogante dove domandare e rispondere acquistano un senso. Questa è la storia del processo continuamente tesa a costruire la grammatica comune di un linguaggio in cui si risponde a qualcuno perché e mentre si risponde di qualcosa. Ma qui è il confine da rimarcare tra diritto e processo. Il diritto penale deve indicare puntualmente il qualcosa di cui rispondere e individuare precisamente le conseguenze della responsabilità, mentre è al processo che tocca stabilire la cornice di regole del domandare e del rispondere.

E’ strano come il ragionare sulle grammatiche incontri direttamente il cuore dell’attualità. Di questo stiamo un po’ nervosamente discutendo in Italia negli ultimi tempi quando ci riferiamo al giusto processo; ma non possiamo dimenticare che non c’è discorso sul processo che non debba esser messo in rapporto col diritto sostanziale (con le cose di cui rispondere). E non c’è dubbio che gran parte dei problemi del processo in Italia, tutti da correggere, dipendano dal modo alluvionale e nevrotico con cui si costruisce il diritto penale, così ipertrofico, frammentato e contraddittorio. E’ nota la polemica sul pan-penalismo, tipico della tendenza a buttarla tutta in penale da parte di una legislazione che connette unicamente l’idea della sanzione al penale e, peggio, al carcerario (frutto ovviamente di una debolezza tecnica, ma anche spia di una sorta di singolare immaturità). Qui le diagnosi devono essere più stringenti: il malfunzionamento del processo penale dipende da tante cose come la quantità e la qualità degli interventi legislativi, dalla cultura dei ceti, da risorse materiali spesso inadeguate, ma anche e in maniera crescente dall’incertezza delle figure di reato che dipendono dalla legge penale. L’equivoco di fondo deriva dal fatto che sul penale e sul suo processo si sono concentrate oltre che banali ipocrisie anche ingenue aspettative di ordine. Allora bisogna ripartire da questa impellente cura dimagrante cui sottoporre il penale e il suo processo, e dalla necessità di tagliare una quantità enorme di superfluo che si è andato accumulando, scegliendo per una riduzione che sia anche recupero di efficienza. Allora il vero investimento è una costituzionalizzazione, prima di ogni altra, del principio della riserva di codice (che è più della riserva di legge) per cui ogni intervento che prevede ricorso al penale deve essere inserito nel codice, innalzando così una doppia barriera di controllo della legalità. E questo è il primo grande passo per un giusto processo. Qui ovviamente l’intelligenza del politico deve mettersi all’opera, e non per negoziare, ma per argomentare e decidere.