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In Italia il dibattito sulla politica delle droghe si è arenato dopo l’occasione perduta dall’ultimo governo Prodi di cambiare la legge Fini-Giovanardi del 2006, che ha inasprito la repressione penale. La nuova legge hainoltre abrogato il risultato del referendum popolare del 1993, che aveva introdotto
la depenalizzazione dell’uso di droga. In realtà, l’impasse è perfino antecedente agli anni in cui, nonostante la spinta referendaria, il movimento riformatore non riuscì a imporre ai governi e al parlamento una legge organica sulle droghe, per superare definitivamente la legge (proibizionista) Iervolino- Vassalli del 1990.
La debolezza dei riformatori ha ridato fiato all’indirizzo moralistico e repressivo che da una parte mette il bavaglio addirittura alla riduzione del danno e mortifica le esperienze della bassa soglia; dall’altra, riempie le galere di tossicodipendenti e di giovani per reati «di lieve entità» (la detenzione al di sopra della quantità definita ad uso personale e il piccolo spaccio).
Non è solo la politica delle droghe a soffrire di carenza di dibattito: la crisi della politica, che è soprattutto crisi di democrazia e di attenzione al bene pubblico, svilisce il confronto di idee, ignora le proposte, non si cura delle strategie alternative. Non tutti però si rassegnano ad una parabola discendente, perché in politica non esiste un destino inevitabile. Noi siamo fra questi, e pensiamo che occorra prepararsi ad una stagione di cambiamento anche nella politica delle droghe.
La svolta non potrà che essere coraggiosa e rigorosa sul piano dei principi, anche se prudente e graduale nella realizzazione.
Per questi motivi, Forum Droghe ritiene utile presentare ai lettori italiani il lavoro di Transform, la fondazione inglese impegnata da anni sul terreno della riforma della politica delle droghe. Il volume Dopo la War on Drugs. Un piano per la regolamentazione legale delle droghe ha l’ambizione di presentare, per la prima volta, una serie di opzioni pratiche e concrete per la creazione di un sistema normativo globale per tutte le sostanze psicoattive ad uso non medico, tracciando chiaramente un percorso di superamento della proibizione definita dalle Convenzioni delle Nazioni Unite. Le tre Convenzioni sulle droghe illegali, del 1961, 1971 e 1988, sono le pietre fondanti del pensiero e della pratica della «lotta alla droga», sviluppatasi lungo il corso del Novecento.
Il libro parte dalla convinzione che la war on drugs sia miseramente fallita e che il progetto di «un mondo libero dalla droga», solennemente proclamato all’Assemblea Generale Speciale sulle droghe di New York nel 1998 (UNGASS), sia inevitabilmente naufragato.
Al tempo, la comunità mondiale delle Nazioni Unite si riconobbe pressoché unanimemente in quel proclama irrealistico e ideologico: a drug free world, we can do it. Da allora, si sono moltiplicate le crepe nell’edificio ideologico della «guerra alla droga» e l’unanimismo è ormai un ricordo. Valga l’esempio del meeting CND (Commission on Narcotic Drugs) nel 2009, a Vienna, in occasione della verifica decennale del piano antidroga deciso all’Assemblea generale di New York (UNGASS Review): la maggioranza dei paesi europei (capofila la Germania) insieme ad altri consegnò agli atti una dichiarazione a sostegno delle strategie di riduzione del danno; tema su cui si era consumato uno scontro assai aspro durante lo stesso meeting. Si trattava di una dissociazione di fatto dalla solenne dichiarazione politica finale; prassi del tutto inusuale e perciò traumatica in questo genere di eventi. Ancora più clamoroso l’intervento del presidente della Bolivia, Evo Morales, nella stessa assise: Morales apertamente contestava le convenzioni sulle droghe in nome dell’autonomia dei popoli e del rispetto delle differenze culturali, preannunciando un emendamento ai trattati internazionali per legalizzare la pratica ancestrale della masticazione della foglia di coca.
Sempre nel 2009, esce un importante documento della «Commissione latinoamericana su droghe e democrazia»: un organismo di esperti promosso dagli ex presidenti Fernando Cardoso del Brasile, Cesar Gaviria della Colombia, Ernesto Zedillo del Messico. La Commissione chiede una svolta nella politica globale delle droghe, anzi un vero e proprio «cambio di paradigma »: depenalizzare la detenzione ad uso personale e concentrare la repressione sul traffico; individuare alternative valide alle coltivazioni illegali di coca e cannabis, compreso il loro utilizzo per prodotti legali (medicinali, tè, tessuti); investire risorse sul versante sociosanitario, in particolare sulla riduzione del danno. Il coinvolgimento degli ex presidenti garantisce l’autorevolezza dell’iniziativa e il suo carattere super partes. È dunque un segnale eloquente che il continente sudamericano, teatro principale insieme all’Asia della war on drugs, non sia più disposto ad appoggiarla e neppure a tollerarla.
Sintomi di cambiamento, di alto valore simbolico, si stanno manifestando anche nel centro promotore della guerra alla droga, gli Usa, ad opera di Obama e del nuovo zar antidroga Gil Kerlikowske: in particolare, la fine della persecuzione da parte degli agenti federali contro i pazienti che usano la marijuana per curarsi e la caduta del veto storico al finanziamento pubblico federale dei programmi di scambio siringhe.
Il conflitto è perfino aperto dentro gli stessi organismi dell’ONU: se lo UNODC (l’agenzia ONU sulle droghe) ha sempre appoggiato la linea dura, lo UNAIDS e la OMS da tempo sostengono la riduzione del danno.

Legalizzare, per la salute innanzitutto
Sembra dunque che i tempi siano maturi per un libro come questo, che vuol essere una guida pratica alla regolazione legale delle droghe. Una guida pratica, si è detto, non uno scritto di mera propaganda e neppure, come si premurano di ripetere molte volte gli autori, un testo «radicale» («estremista»
diremmo noi in Italia). Al contrario, l’estremismo ideologico è appannaggio dei proibizionisti. Così, mentre le Convenzioni accomunano nel divieto droghe assai differenti (per caratteristiche farmacologiche, per modelli d’uso, per accettabilità sociale), all’inverso il libro offre ragionate e ragionevoli opzioni di regolazione, distinte per le diverse droghe. Di più, si prefigura un percorso a tappe alla regolamentazione legale di produzione, vendita e consumo delle diverse droghe e si mette in guardia dal rischio di cambiamenti improvvisi. È così tracciato un nuovo corso della politica delle droghe, radicato nella «scienza e coscienza» e poggiato sul pragmatismo: da qui il fondamentale ruolo della ricerca, per un monitoraggio attento e costante dei mutamenti introdotti.
Non vengono elusi neppure i più tenaci luoghi comuni, piatto forte di chi difende a oltranza lo status quo: come quello che preconizza un inesorabile aumento dei consumi in caso di legalizzazione. Questo assunto non ha dalla sua alcuna dimostrazione. Anzi, alcune ricerche che hanno confrontato i consumi in paesi con regimi legali assai differenti (come quella sulla cannabis ad Amsterdam e San Francisco) mostrano modelli d’uso incredibilmente simili.
Ciò fa supporre la scarsa incidenza dei controlli legali sui trend sociali. Lo stesso si ricava da un esame della prevalenza d’uso in paesi più repressivi a confronto con quelli più liberali.1 Più alla radice, è messo in discussione il modello di salute pubblica centrato sulla riduzione/eliminazione dei consumi invece che sulla promozione dei modelli d’uso più moderati/controllati (e sulla dissuasione da quelli più intensivi/incontrollati). Nella seconda ipotesi, la legalizzazione offre molti vantaggi per la salute pubblica: dal controllo di qualità del prodotto, all’informazione sugli effetti delle sostanze, utile specie per quelle più pericolose, all’educazione all’uso responsabile. Quanto agli svantaggi dell’illegalità rispetto alla salute degli individui e della collettività, possiamo fare nostre le magistrali parole di Norman Zinberg (1984): Ironicamente, gli sforzi per eliminare ogni tipo di consumo lavorano contro lo sviluppo di controllo da parte di chi decide comunque di consumare.
Vale la pena di considerare con particolare attenzione il ragionamento intorno al bene della salute pubblica. Della salute pubblica, si badi bene. Dal punto di vista della salute individuale, l’astinenza dalle sostanze psicoattive può essere una scelta ragionevole, a volte assai opportuna. Ma dal punto di vista della salute pubblica, l’imposizione dell’astinenza (sottesa alla proibizione) non solo significa rinunciare a tutelare la salute di quei cittadini che scelgono comunque di consumare; comporta anche aumentare il rischio legato alle droghe. Nello specifico, il regime d’illegalità tutela una parte dei cittadini (coloro che saranno convinti ad astenersi) contro l’altra parte (di chi consuma). Come dire: il mondo «libero dalla droga» è un imperativo (moralistico) che divide la società; se invece si vogliono «gettare ponti» fra le differenze, senza esacerbare i conflitti e favorire le spinte all’espulsione, allora l’obiettivo più consono delle politiche pubbliche è la «convivenza» con le droghe.
La convivenza non significa rassegnazione. Al contrario, proprio l’abbandono del meccanismo di negazione della realtà permette di lavorare attivamente per modificarla: affrontando finalmente in maniera razionale il problema dell’uso di droghe, al fine di limitarne i rischi. È un filo di ragionamento che percorre con puntiglio l’esposizione dei modelli di regolamentazione (bene integrando la più tradizionale argomentazione a sostegno della legalizzazione, dei benefici per l’ordine pubblico derivanti dalla riduzione dell’illegalità e della criminalità).
Come si vede, il volume apre una finestra sul possibile funzionamento di un sistema di controllo delle droghe alternativo a quello fondato sulle Convenzioni: sceglie i mattoni e presenta i plastici di costruzione per il nuovo edificio normativo che potrebbe sorgere dall’auspicato «cambio di paradigma». Per edificare il nuovo, bisogna abbattere il vecchio o almeno ristrutturarlo alle fondamenta. Il «vecchio» non è solo rappresentato dalle Convenzioni di Vienna: nel corso di oltre sessanta anni è stato costruito un complesso sistema di agenzie e di apparati per implementare le convenzioni e condurre la «guerra alla droga». Come ben si sa, le burocrazie lavorano per preservare se stesse, e la burocrazia antidroga non è da meno. Non c’è dunque da meravigliarsi che il vecchio edificio sia ancora in piedi, nonostante i segnali di cedimento di cui si è detto.

Le convenzioni ONU e la Chiesa della proibizione
Quali sono i passi da compiere per adeguare la normativa internazionale e permettere il passaggio alla regolazione legale? Anche su questo problema di natura squisitamente politica, il libro offre materiali di discussione nella ricca Appendice sulle Convenzioni internazionali, entrando nel merito delle diverse procedure di modifica dei trattati, dalla denuncia all’emendamento. Si scopre così che le Convenzioni sono congegnate, anche tecnicamente, per sopravvivere nella veste originaria il più a lungo possibile. Per inciso: il fatto che non sia previsto un meccanismo agibile di modifica, che permetta di aggiornare i trattati alla mutata situazione dei consumi, dei mercati, dei rapporti geopolitici, la dice lunga sul carattere ideologico di questi trattati. Che non sono strumenti moderni e laici di governo dei problemi globali, quanto piuttosto una sorta di testi «sacri» del proibizionismo.
Come si può mettere in moto la macchina dell’innovazione, in modo da adeguare le politiche globali delle droghe ai progressi della scienza e poter recepire le lezioni che provengono dalle sperimentazioni avviate a livello nazionale e locale, nelle città e nei territori?
Alcuni spunti si ricavano dall’esperienza italiana. Come accennato, nel 1993 si svolse un referendum abrogativo delle norme penali della legge n. 162 del 1990 ammesso al voto dalla Corte Costituzionale ed uscì nettamente vincente la scelta di depenalizzare la detenzione e il consumo personale delle sostanze stupefacenti. Lo INCB (International Narcotics Control Board), l’organismo che sovrintende l’applicazione delle Convenzioni, obiettò subito alla nuova legge sugli stupefacenti, così come emersa dalla volontà popolare: a detta del Board, la nuova normativa non ottemperava ai trattati internazionali.
Negli anni successivi, una delegazione dello stesso INCB, in un incontro in Italia coi rappresentanti del Ministero di Grazia e Giustizia, rinnovò i suoi appunti. Il governo rispose sostenendo una diversa interpretazione delle Convenzioni; chiarì anche che nel nostro ordinamento la legislazione nazionale, per di più quando è prodotta dalla espressione della volontà popolare, non può avere altro limite che quello dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e dei valori della Costituzione e non di norme prive di valore cogente.
Non solo la pressione politica dello INCB non ebbe alcuna conseguenza in ambito internazionale, ma neppure in ambito locale suscitò alcun dibattito. Ancora, nel 1995 una proposta di legge per la legalizzazione dei derivati della cannabis indica fu sottoscritta da oltre 150 deputati.2 I sei articoli disegnavano un sistema di autorizzazioni per la coltivazione a fini di commercio, l’acquisto, la produzione e la vendita di canapa. I prodotti destinati alla vendita al dettaglio sarebbero stati sottoposti a controllo di qualità, mentre le confezioni destinate alla vendita al minuto avrebbero dovuto riportare avvertenze sugli inconvenienti per la salute. Era contemplato il divieto della vendita di canapa ai minori di sedici anni, nonché della propaganda pubblicitaria diretta o indiretta. Erano inoltre indicati la tipologia degli esercizi autorizzati alla vendita e i requisiti dei locali pubblici destinati al consumo delle sostanze.
Infine, era prevista una relazione annuale al Parlamento sullo stato di attuazione della legge e sui suoi effetti: in particolare sull’andamento delle vendite, sull’età media dei consumatori, sul rapporto fra uso di canapa e consumo di alcolici e di altre sostanze stupefacenti, sull’eventuale persistenza del mercato clandestino. La proposta iniziò il suo iter parlamentare nonostante le difficoltà politiche, anche se poi la fine anticipata della legislatura impedì la conclusione della discussione. Se fosse stata approvata, sarebbe diventata legge dello Stato nonostante le previsioni delle Convenzioni internazionali.

Dal centralismo burocratico al «rimpatrio» della politica delle droghe
C’è da dire che la depenalizzazione (del consumo) è diversa dalla legalizzazione (della produzione e del consumo): quest’ultima è chiaramente esclusa dalle Convenzioni. È pur vero che le decisioni prese secondo le procedure democratiche nazionali hanno la supremazia sui trattati internazionali, nel senso che gli ultimi non possono costituire impedimento all’esercizio del potere democratico in merito alle questioni oggetto delle convenzioni internazionali.
Tuttavia, se la legge sulla legalizzazione della cannabis fosse stata approvata, l’Italia avrebbe di fatto denunciato le Convenzioni e sarebbe quindi uscita dal regime dei trattati internazionali. Nel caso della depenalizzazione dell’uso, ci sono invece margini di compatibilità col dettato delle Convenzioni. Tali margini hanno permesso all’Olanda di perseguire la politica della tolleranza per la cannabis col sistema dei coffee shop; così come ad alcuni paesi, soprattutto europei, di aprire le «stanze del consumo» sicuro, dotate di assistenza sanitaria (safe injecting room) e di sperimentare con successo altre misure di riduzione del danno. In questi casi, i richiami all’ordine dello INCB (puntualmente verificatisi negli esempi sopra citati) si basano su interpretazioni soggettive dei trattati che non si vede per quale ragione debbano prevalere su quelle degli Stati membri, se è vero, com’è vero, che i trattati stessi riconoscono il diritto di applicare gli articoli in accordo col sistema legale vigente negli Stati.3 È evidente che lo INCB sta sconfinando dai suoi compiti istituzionali, per muoversi su un terreno squisitamente politico, che non gli compete. Stante che il Board non ha poteri per costringere i paesi ad applicare le proprie direttive, le sue citazioni di demerito verso gli Stati «disobbedienti» valgono quale forma di stigmatizzazione di fronte alla comunità internazionale. Sono pressioni politiche che possono mettere in serie difficoltà i paesi più deboli (i cosiddetti paesi «produttori», per esempio), ma che non possono intralciare le riforme in quelli più forti. Così è stato in Italia, come si è detto, per le norme di depenalizzazione uscite dal referendum. Così è stato per il Regno Unito, quando nel 2003 fu decisa la declassificazione della cannabis (col risultato di una sostanziale depenalizzazione dell’uso personale di questa sostanza): il governo britannico rispose agli attacchi dello INCB con una nota diplomatica gelida e perfino sprezzante, nel merito e nella forma.
Per tornare al problema più scottante della modifica delle convenzioni, esso è da diverso tempo all’attenzione del movimento riformatore. Nel 2003, Forum Droghe organizzò a Venezia un convegno intitolato «Da Venezia a Vienna. Per un’alternativa alla war on drugs in nome dei diritti umani», in occasione della riunione della CND (Commission on Narcotic Drugs) per la cosiddetta «valutazione di medio termine» del piano globale antidroga lanciato all’Assemblea Generale dell’ONU del 1998 (UNGASS Midterm Review). In quella sede, la studiosa Cindy Fazey propose il «rimpatrio» delle politiche delle droghe: riportare le scelte fondamentali nelle mani dei governi nazionali, lasciando decadere di fatto alcune norme delle Convenzioni internazionali. In questo caso il cambiamento avverrebbe non attraverso i complessi meccanismi burocratici di denuncia o di emendamento previsti dai trattati, ma tramite l’iniziativa politica decentrata di un singolo paese o (meglio) di un certo numero di paesi a vocazione riformatrice. Negli stessi anni, il sociologo Peter Cohen pubblicava un saggio sulla «Chiesa della proibizione» e i suoi «testi sacri ». Scriveva fra l’altro: «La vera sfida alla legittimità dei trattati sulle droghe non sta nel prendere iniziative di cambiamento al livello della Congregazione. Il vero test sarà quando i singoli paesi o gruppi di paesi capiranno che i cambiamenti di cui le loro città hanno bisogno andranno sempre contro qualche frase o virgola dei testi sacri».4 È la via della denuncia di fatto, della dissociazione tacita, dell’iniziativa dal basso che si legittima in base all’efficacia dei risultati, alla capacità effettiva di governare le comunità locali. In sintesi, lo svuotamento delle Convenzioni conduce naturalmente alla loro decadenza.
Già si è detto dei sintomi di cedimento nell’edificio proibizionista. Nel novembre 2010 si è registrato lo scricchiolio più rumoroso: il Rapporteur delle Nazioni Unite per il «Diritto al godimento del più alto possibile standard di salute fisica e mentale», Anand Grover, presenta un rapporto di denuncia delle tante violazioni dei diritti umani perpetrate in nome della guerra alla droga punta l’indice contro le Convenzioni di proibizione. Il Rapporteur sul diritto alla salute chiede un «cambio di paradigma» radicale: il superamento delle Convenzioni e il passaggio alla regolamentazione legale seguendo un modello simile a quello del tabacco. Interessante la risposta congiunta degli organismi ONU preposti alla politica delle droghe, lo UNODC e lo INCB: da un lato ribadiscono il carattere perenne dei «sacri» trattati, rivendicando la insostituibilità dell’approccio penale nella «prevenzione dell’abuso e della dipendenza» [sic]; dall’altro propongono un «approccio bilanciato», ricordando che per il consumo le convenzioni consentono misure alternative alle sanzioni penali. Esattamente quanto previsto dal referendum italiano del 1993 di depenalizzazione dell’uso di droghe, che allora aveva suscitato le reazioni stizzite dello INCB.
Times they are a-changing a Vienna? Chissà. Intanto, Times they are a-changing negli Stati Uniti. Nell’ottobre 2010, il governatore della California, il repubblicano Arnold Schwarzenegger, ha firmato una legge sull’uso personale di marijuana che sostituisce la previsione del carcere con una semplice multa, senza più alcuna conseguenza penale. La legge entra in vigore nel gennaio 2010: siamo curiosi di leggere il prossimo rapporto INCB.

Alcol e cannabis, i limiti della categoria di danno

La regolamentazione legale di tutte le sostanze psicoattive non significa il semplice allineamento (normativo) delle droghe in precedenza illegali a quelle legali. Al contrario, occorre riconsiderare e riclassificare il rischio/danno di tutte le sostanze. La nuova cornice normativa adeguer  i controlli legali alla graduatoria di rischio sanitaria. E poiché l’alcol è sempre più indicato come una sostanza pericolosa, il nuovo sistema dovrà ragionevolmente proporre normative più stringenti per l’alcol a fronte di un allentamento dei controlli per alcune sostanze oggi illegali: così ragionano gli autori del volume. Tale tesi, non nuova nel fronte antiproibizionista, è sostenuta soprattutto dai fautori della legalizzazione della canapa. I quali, per sottolineare la sproporzione fra il bassissimo rischio farmacologico della cannabis («non-droga», si è detto) e l’alto livello di repressione penale, puntano l’indice contro i danni elevati dell’alcol (a fronte degli insufficienti controlli legali). È lo stesso ragionamento del farmacologo britannico David Nutt, che nel 2007, in un primo studio, ha proposto una classificazione del danno da droghe: l’alcol è ai gradini più alti della scala (insieme ad eroina, cocaina e barbiturici) mentre la canapa è classificata a quelli più bassi (undicesimo posto). Il secondo studio di Nutt (2010) segue sostanzialmente la stessa metodologia del primo, di consensus conference fra esperti.5 Esso mostra un allargamento della forbice fra la scala del danno da un lato, e i regimi legali dall’altro: l’alcol è ritenuto la sostanza più pericolosa, e raggiunge il vertice (72 punti di danno) grazie agli alti punteggi nei criteri di «danno agli altri» (i danni sociali come «crimine» e «conseguenze negative in famiglia»); la canapa è ben distanziata all’ottavo posto con 20 punti); addirittura l’ecstasy è al quartultimo posto (con un punteggio di 9).
Questa linea – allentiamo i controlli per la canapa ma rafforziamoli per l’alcol – tanto è solida e di buon senso in apparenza, quanto discutibile nella sostanza.
Fra le possibili obiezioni, una basilare è stata avanzata da un altro farmacologo, Paolo Nencini:6 Nutt non tiene presente – sostiene Nencini – che esistono due aree degli effetti dell’alcol, «approssimativamente separate dal livello di alcolemia che distingue lo stato sobrio da quello dell’ebbrezza. La prima area comprende gli effetti che in senso lato facilitano la socializzazione: abbattimento dell’ansia sociale, facilitazione della comunicazione verbale e no, euforia. La seconda comprende invece gli effetti che generano comportamenti antisociali: ostilità e aggressività, distorta percezione dei messaggi verbali e non verbali, errata valutazione delle conseguenze delle proprie azioni». Su questi differenti grappoli di effetti si sono fondate differenti culture del bere: «la nostra, la cosiddetta cultura mediterranea, che discende dalla cultura greca, ha familiarità col grappolo di effetti «che contribuisce alla socializzazione e sembra addirittura partecipare alla buona salute fisica della comunità». La classificazione di Nutt crea a Nencini «sorpresa e disagio» perché si riferisce all’altro grappolo di effetti dell’alcol, quello dell’eccesso alcolico, mentre ignora le culture della sobrietà.
È in primo luogo un richiamo a considerare la miopia della categoria di rischio, poiché le sostanze hanno vantaggi e svantaggi, effetti positivi ed effetti negativi; e a valutare il ruolo decisivo delle culture e dei contesti nel «plasmare » i modelli di consumo (massimizzando gli effetti farmacologici positivi e minimizzando/espungendo quelli negativi). Non solo. Desta in noi stupore e disagio che si parli di «danni sociali» delle droghe astraendo da come le sostanze vengono usate. In tal modo, i danni sociali sono ricondotti alle proprietà delle sostanze, come se la farmacologia potesse dar conto, in maniera deterministica, dei comportamenti individuali e dei modelli sociali di consumo. Il lavoro di David Nutt ha l’indubbio merito di evidenziare l’incongruenza e l’insensatezza dell’attuale trattamento legale delle sostanze psicoattive. Tuttavia, non sfugge ai limiti della prospettiva «farmacocentrica», la stessa che è alla base della cultura del proibizionismo. Se infatti il problema è nelle sostanze che «dominano» gli individui, e non sono contemplate le capacità degli individui e dei contesti di «dominare» le droghe, allora l’obiettivo principe sarà di ridurre al minimo le opportunità di contatto fra gli individui e le sostanze: il che significa ridurre (fino ad eliminare quale obiettivo ideale) l’offerta
della sostanza sì da ridurre al minimo la prevalenza dell’uso di alcol nella popolazione.

La legalizzazione è di là da venire? Mai dire mai

Dunque, il «farmacocentrismo» si tira dietro la centralità dei controlli legali, di interdizione della sostanza (quali il divieto di acquisto e di uso in pubblico al di sotto di una certa età, ad esempio). Peraltro, la proibizione non è altro che l’opzione estrema, più radicale, del controllo legale. Non a caso l’idea di leggere i consumi di alcol attraverso (l’unica) lente del danno, nasce originariamente nell’ambito del Movimento della Temperanza, che sul finire del XIX secolo si batté per la proibizione dell’alcol e riuscì ad imporla nell’America degli anni venti. Per tali ragioni, è assai improbabile che il «riequilibrio» fra alcol e cannabis possa risolversi nel passaggio alla legalità di quest’ultima.
È invece assai più probabile che sia l’alcol ad essere risucchiato nella spirale della proibizione.
Non ci stancheremo di ripetere che esiste un modello di salute alternativo, centrato sui controlli sociali. In tale visione, le culture della sobrietà sono un fattore protettivo contro l’eccesso alcolico: sostenerle e promuoverle rappresenta la più efficace forma di prevenzione. I dati sembrano favorire questa linea: i paesi mediterranei, nonostante abbiano più alta prevalenza di consumo di bevande alcoliche rispetto ai paesi nordici e anglosassoni (radicati nella cultura della Temperanza), hanno tuttavia minori problemi alcol correlati.
Ciò non significa che non sia opportuno introdurre nuove norme di legge, ovviamente. Noi stessi abbiamo presentato in Parlamento (peraltro senza successo) proposte per il divieto della pubblicità televisiva dei superalcolici e della vendita di bevande alcoliche nei punti di ristoro delle autostrade. La proposta con prima firma Corleone nella XIII legislatura riprendeva un disegno di legge della X legislatura presentato dai senatori Grazia Zuffa, Nicola Imbriaco, Giovanni Berlinguer, Giovanni Correnti e Franca Ongaro Basaglia.
L’essenziale è di non assecondare il riduzionismo farmacologico: l’uso di droghe è un’esperienza umana complessa che non può essere ridotta agli effetti della sostanza sull’organismo.
La legalizzazione è di là da venire? Ethan Nadelmann in un saggio pubblicato su Fuoriluogo rispondeva così: «Mai dire mai». E aggiungeva: «Un mondo libero dalla droga, definito dalle Nazioni Unite un obiettivo realistico, è tanto raggiungibile quanto un mondo libero dall’alcol, cosa di cui nessuno più parla seriamente da quando la proibizione è stata abrogata negli Stati Uniti nel 1933. Tuttavia persiste una futile retorica sul vincere la guerra alla droga, nonostante le montagne di evidenze che ne documentano la bancarotta morale e ideologica. La guerra globale alle droghe persiste anche perché tante persone non distinguono tra i danni dell’abuso di sostanze e i danni della proibizione. La legalizzazione ci obbliga a mettere questa distinzione in primo piano. Poche persone hanno ancora dubbi sul fatto che la guerra alla droga sia persa, ma servono coraggio e capacità di visione per superare l’ignoranza, la paura e gli interessi acquisiti che la sostengono».8
Condividiamo totalmente questo auspicio e ci auguriamo che questo libro contribuisca a far rinascere anche in Italia una discussione senza pregiudizi.
Una nuova stagione, di ragione e tolleranza, forse si avvicina.

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