«Agli inizi del 1985 fui convocato al ministero da Martinazzoli, insieme a Nicolò Amato. Fu un incontro breve ma intenso e, come si dice, costruttivo – scriveva Mario Gozzini – Si rilevò, di comune accordo, la possibilità di una rivisitazione ampia della riforma del 1975, in convergenza fra governo, maggioranza e opposizione. Mi pareva naturale che il ministro presentasse un proprio disegno di legge, e lo dissi. No, rispose con intelligenza Martinazzoli, senza badare a consuetudini e puntigli; no, se do un incarico del genere ai miei uffici, considerata anche la necessità del ”concerto” con altri ministeri, ci vogliono anni, e invece bisogna far presto; no, c’è quel tuo disegno di legge, procediamo per emendamenti aggiuntivi a quel testo, pensa tu a formularli, il governo collaborerà. In questo senso, e solo in questo senso, può essere ritenuto corretto chiamare “legge Gozzini” l’integrazione e il rilancio della riforma penitenziaria che sarebbero stati varati in tempi brevi». Così Mario Gozzini (La giustizia in galera?, Editori Riuniti, 1997), «per nulla “pentito”» della sua opera, ricordava il contributo di Mino Martinazzoli, allora Ministro della giustizia, alla gestazione e all’approvazione della legge che porta il suo nome e di cui tra qualche giorno si potrà ricordare il venticinquesimo anniversario.
Nella memoria a breve cui siamo abituati, o in quella sintetica dei notiziari giornalistici, in occasione della morte Mino Martinazzoli è stato ricordato per la sua ultima responsabilità pubblica nazionale (commissario liquidatore della Dc travolta da Tangentopoli) o, al più, per l’ultimissima esperienza di sindaco della sua città, Brescia. Non una traccia di quei tre anni al Ministero della Giustizia e della sua attenzione al carcere e ai detenuti. «Il ministro rispondeva personalmente, a mano, alle lettere che gli scrivevano i detenuti, cominciando con “egregio signore”» ricorda ancora Gozzini: «sono testimone della sorpresa – forse dovrei dire entusiasmo – che quei bigliettini su carta intestata “il Ministro di Grazia e Giustizia” suscitavano nei destinatari».
Questa attenzione, questa sensibilità umana e politica, con Franco Corleone abbiamo avuto la fortuna di verificare e sollecitare ancora una volta qualche tempo fa, quando nella cura di un libro Contro l’ergastolo (Ediesse 2009), scaturito dalla riscoperta di una lezione universitaria di Aldo Moro, ne chiedemmo un commento proprio a Martinazzoli. Nella rilettura del personalismo etico del suo predecessore (leader della Dc e Ministro della Giustizia prima di lui), Martinazzoli chiosa che «se la pena è evocata per porre riparo a un deragliamento della libertà, il costo da pagare può riguardare solo la libertà. Un costo certo alto, il più alto per l’uomo, ma proprio per questo non suscettibile di aggravi ulteriori. Ne deriva il dovere da parte dello Stato di garantire una modalità di esecuzione della pena che non aggiunga sofferenza a quella, già acerba, della perdita della libertà». La citazione potrebbe continuare, fino al compito infinito di cercare «non tanto un diritto penale migliore quanto qualcosa di meglio del diritto penale», ma quel tema del limite al potere punitivo, l’intollerabilità di “aggravi ulteriori” alla perdita della libertà, dice già tutto e, soprattutto, dice quel che ci interessa, di Martinazzoli, di una cultura politica e giuridica, e dei rischi di oggi, di un sistema penale e penitenziario senza limiti, in cui quegli “aggravi ulteriori” sono pane quotidiano della vita in carcere.
Articolo di Redazione
Stefano Anastasia ricorda per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 21 settembre 2011 la figura di Mino Martinazzoli.