Tra i danni collaterali del proibizionismo spiccano gli ostacoli alla ricerca sugli effetti delle droghe illecite, compresi i possibili effetti terapeutici: lo ha di recente affermato il noto neuropsicofarmacologo britannico David Nutt, già membro autorevole del comitato governativo sulle droghe, licenziato nel 2009 per aver sostenuto che l’alcol e il tabacco sono più pericolose di alcune droghe illegali, come la cannabis e l’ecstasy.
Ma proprio nel caso della cannabis le cose si stanno ormai muovendo, grazie alla crescente frequenza di studi clinici controllati: condotti cioè “a regola d’arte”, secondo gli standard di quei critici che finora hanno obiettato: non ci sono studi controllati, come facciamo ad accettare la cannabis come farmaco?
Per esempio, uno studio ha di recente dimostrato un’attenuazione di dolore e di spasticità nella sclerosi multipla in pazienti che hanno fumato il prodotto. Fumato, si noti; non i soliti compromessi a base di prodotti più o meno modificati o purificati, onde evitare che i soliti zelanti si straccino le vesti per le analogie con il consumo a scopo edonico (Canadian Medical Association Journal, 2012, Doi.1503/cmaj110837). Secondo un’altra ricerca della scuola medica britannica di Plymouth, non ancora pubblicata, il trattamento per tre anni col principio attivo Thc avrebbe confermato l’azione contro dolore e spasticità, ma mancato di rallentare il progresso della malattia: il che ha provocato disillusione e frustrazione nei pazienti che avevano accettato di arruolarsi nell’esperimento. Tale reazione non desta meraviglia: troppi medici, infatti, per accrescere il proprio prestigio (sino a “giocare a Dio”), tendono nei rapporti coi pazienti a sfumare una differenza di capitale importanza, quella tra curare e guarire. Un trattamento antibiotico o chemioterapico appropriato guarisce da una polmonite, da una febbre tifoide, etc. L’insulina cura il diabete senza guarirlo; ma se usata a regola d’arte, consente anche nei casi più gravi (diabete giovanile di tipo I) una vita normale, anche se alcune complicanze non si riescono sempre a evitare. Infine, abbiamo le non meno importanti cure palliative, come l’uso appropriato degli oppiacei – notoriamente ancora troppo spesso drasticamente “razionati” in Italia, malgrado i notevoli alleggerimenti normativi nell’iter di prescrizione – nei casi di dolore grave, non solo oncologico, in pazienti non di rado inguaribili e destinati a morire. Ora la sclerosi multipla è purtroppo inguaribile, e i derivati della cannabis esercitano su alcuni sintomi particolarmente gravi (dolore, spasticità) proprio questa preziosa azione palliativa. E siccome la speranza di vita degli ammalati di sclerosi è spesso molto vicina, o addirittura identica, a quella degli altri soggetti, forse questo effetto che migliora la qualità della vita potrebbe considerarsi addirittura più significativo di quello degli oppiacei negli ammalati inguaribili o addirittura terminali. Ma asteniamoci dal proporre queste inutili gerarchie; seguitiamo piuttosto a insistere perchè il medico non “demorda” sinché non sia certo che il suo assistito abbia compreso a fondo quanto si può fare o non si può fare; e sinché non si sia convinto che quando non può guarire, non può esimersi dal curare: anche se al termine della cura si profila un fallimento che può intaccare il suo prestigio.
Articolo di Redazione
Giorgio Bignami commenta le recenti ricerche sull’uso della canapa in medicina per la rubrica di Fuoriluogo sul Manifesto del 13 giugno 2012.