Occorre tornare su alcuni recenti risultati relativi alle azioni terapeutiche della cannabis, già ampiamente diffusi, per tentare di coglierne le importanti implicazioni.
La ricerca canadese di Lucas et al (“Addiction Research and Theory” 20.11.2012, doi:10.3109/16066359.2012.733465), conferma che la cannabis è una efficace “sostanza d’uscita” dalla dipendenza da sostanze più dure. Si tratta di 404 soggetti, dei quali il 41% ha dichiarato di aver beneficiato dell’uso di cannabis per l’uscita dall’alcol, il 36% da droghe illecite pesanti, addirittura il 68 % da farmaci leciti.(Il totale è maggiore di 100 per la nota frequenza dei casi di dipendenza da più sostanze). Le motivazioni più spesso dichiarate per questa autocura: minore sofferenza in fase di astinenza, minori effetti collaterali, miglior controllo dei sintomi. Concludono gli autori: è ora di avviare studi randomizzati per verificare a regola d’arte l’efficacia della cannabis come sostitutivo, cioè come strumento di riduzione del danno e di cura delle dipendenze patologiche.
Passando ora al “British Medical Journal” (T.B. Rajavashisth et al, 24.02.2012, doi:10.1136/bmjopen-2011-000494) troviamo una ulteriore analisi dei dati dello studio su salute e nutrizione, condotto tra il 1988 e il 1994 dai Centri USA per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie. In un campione di quasi 11.000 soggetti, di cui il 39% consumatori o ex consumatori di cannabis e il 61 % non consumatori, il diabete di tipo 2 (quello degli adulti soprattutto se mangioni) era presente assai meno spesso nei primi rispetto ai secondi. Tale riduzione era massima in coloro che erano consumatori leggeri nel periodo dello studio, ma restava notevole anche negli ex consumatori e anche dopo “scontati” vari potenziali fattori confondenti, socioeconomici e altri. Gli autori, avvertendo che i risultati potrebbero essere stati influenzati dal fatto che in parte si basavano sulle risposte dei soggetti, piuttosto che su rilevamenti oggettivi, sottolineano che essi confermano analoghi dati ottenuti nell’animale; e inoltre che sono coerenti col fatto che la cannabis possiede un’azione anti-infiammatoria, e che un’associazione tra processi infiammatori e sviluppo del diabete di tipo 2 è già stata dimostrata, anche se non ancora del tutto chiarita.
Vedremo ora quale spazio potrà aprirsi per ricerche ampie e sistematiche sugli effetti della cannabis in una varietà di condizioni patologiche nelle quali giocano un ruolo importante i processi infiammatori e i meccanismi autoimmunitari: patologie notoriamente sempre più frequenti per l’invecchiamento della popolazione e per la crescita e la diversificazione dell’inquinamento ambientale. E del resto, se l’evoluzione ci ha imbottito di recettori oppioidi come parte importante dei meccanismi di modulazione delle risposte al dolore e altre, che ci starebbero a fare i recettori cannabinoidi nelle cellule del sistema nervoso centrale e in quelle del sistema immunitario?