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Il recente dibattito che si è sviluppato intorno alla vaccinazione per i cocainomani ha avuto un notevole rilievo mediatico che ha raggiunto il suo clou al «Cocaina Verona congress 2006». Il «vaccino» è già in via di sperimentazione in Spagna e, a quanto si apprende dalle fonti di agenzia e dal congresso citato, è pronto per essere sperimentato in Italia. In che cosa consiste? In breve, è una sostanza preparata in laboratorio simile alla cocaina ma senza i suoi effetti stupefacenti, modificata in modo tale da provocare una risposta immunitaria con produzione di anticorpi anticocaina. Il consumatore che assume cocaina così non sentirà l’effetto perché gli anticorpi che l’organismo produrrà bloccheranno la sostanza e le impediranno di raggiungere i «centri del piacere» del cervello. L’azione inizia circa dieci-dodici settimane dopo l’iniezione intramuscolare. L’effetto dura tra i sei e i nove mesi. In questo intervallo di tempo il cocainomane sarebbe «protetto» dall’effetto euforizzante e gratificante della cocaina.
Si pongono però alcuni interrogativi, già leggendo le informazioni destinate ai volontari che parteciperanno alla sperimentazione ed agli operatori: si evidenzia infatti che il consumatore che ha assunto il vaccino potrebbe provare ad aumentare le dosi di cocaina per sentire l’effetto, forzando il blocco del vaccino, con un grave rischio di overdose. Inoltre, se un soggetto vuole interrompere il programma perché si rende conto che non ce la fa (col naltrexone, il farmaco antagonista all’eroina accade frequentemente), non potrà farlo e sarà esposto a rischi di overdose ulteriori e ad inutili disagi. Infine, è semplicistico pensare che un blocco meccanico eluda il desiderio di consumo di droghe, per cui è prevedibile il viraggio verso il consumo e policonsumo di altre droghe, certamente meno controllabile (fenomeno ben conosciuto dagli operatori dei Sert). Non ho alcuna posizione preconcetta in merito ai trattamenti finalizzati all’astinenza, al contrario, ma credo che la condizione drug free dovrebbe essere una scelta (attiva e non passiva) che ogni tossicodipendente dovrebbe poter fare senza obblighi morali e farmacologici.
Vi sono anche seri rischi per la privacy dei soggetti vaccinati, costituiti dalla persistenza degli anticorpi nel sangue per diversi anni e forse anche per tutta la vita. Questo significa che un soggetto potrebbe essere identificato come ex consumatore di cocaina in una qualche indagine di laboratorio magari svolta a scopo di selezione per un concorso per un posto di lavoro.
In Gran Bretagna, nel 2004, il governo Blair, preso dall’entusiasmo, aveva avanzato l’idea di vaccinazioni di massa contro la futura dipendenza da droghe e da fumo. Mentre vi è qualche ricercatore che già ipotizza, con soddisfazione, una vaccinazione «selettiva» per ipotetici soggetti geneticamente vulnerabili o per giovani che vivono in situazioni a rischio (una nuova forma di controllo sociale-vaccinale?). Insomma, il paradigma che vede come finalità unica del trattamento l’astinenza, nonostante i suoi evidenti e documentabili fallimenti, domina ancora, sostenuto dall’idea del consumo di droghe come male da eradicare, colpa da espiare, malattia infettiva che si diffonde pericolosamente.
Il cartello «Non incarcerate il nostro crescere» ha definito il vaccino «un approccio miracolistico ed esclusivamente sanitario ad un fenomeno complesso che richiede una forte attenzione agli aspetti culturali, educativi, psicosociali che tale consumo manifesta in particola modo».
Alcuni ricercatori hanno evidenziato l’esigenza di insistere più sulle politiche di riduzione dei rischi e sulla diffusione di un’informazione «non generalista» adeguata alle diverse tipologie dei consumatori.
La vicenda del vaccino anticocaina richiama considerazioni più vaste circa il ruolo della ricerca e i criteri seguiti per stabilire le priorità. Ad esempio, nel caso in questione, si è tenuto in considerazione che una larga sperimentazione, realizzata nei Sert, di un farmaco utilizzato per analoghe finalità, e cioè il citato naltrexone, ha dato risultati deludenti ed inconsistenti? E come mai ci si orienta verso sperimentazioni centrate sull’astinenza forzata quando non è possibile reperire nella letteratura scientifica né tanto meno nella pratica clinica, alcun dato a sostegno di queste scelte?
Il governo attuale dovrebbe farsi promotore di una svolta culturale nel settore della ricerca: ad esempio autorizzando in Italia quelle ricerche e sperimentazioni, condotte in modo rigoroso in altri paesi europei, come quelle sui trattamenti con eroina ( attualmente nemmeno nominabili per motivi esclusivamente ideologici); ma anche sulle stanze del consumo e sulla possibilità di analizzare le sostanze di strada destinate ai vari contesti del consumo (ricreative etc).
Sarebbe, inoltre, utile un confronto (finalizzato ad una loro riproposizione in Italia) con le metodologie di ricerca sui consumi controllati, come quelle sui consumi di canapa e di cocaina condotte in diversi paesi sin dagli anni ’80: utili anche per sviluppare una strategia di massa di riduzione dei rischi. Un orizzonte molto più vicino alle nostre esperienze e culture.
Infine, le associazioni e le società scientifiche dovrebbero promuovere una discussione pubblica su questi temi e sui modelli culturali d’intervento che i servizi hanno elaborato in anni di lavoro e di esperienze positive di riduzione del danno.