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Interrogarsi sull’etica e le conseguenze dei propri comportamenti, anche quando sembra possano danneggiare solo se stessi, rappresenta un punto di arrivo nella costruzione della coscienza critica.

Pensare di accelerare questo processo di formazione della persona, etichettando come “colluso” con la mafia chi consuma sostanze psicoattive illegali, è l’ennesima scorciatoia illusoria, a “effetto-boomerang” messa in atto da chi pensa che, pur di fare prevenzione, tutti i mezzi siano ugualmente efficaci. Affidare la prevenzione alla stigmatizzazione delle persone dipendenti e dei consumatori, rappresentandoli come tante formichine al servizio dei boss del narcotraffico, oltre a essere un’inaccettabile semplificazione, fa del moralismo il suo perno comunicativo, condannando e colpevolizzando i comportamenti di dipendenza e le “trasgressioni” giovanili.

Quale effetto può causare questa modalità operativa? Sulle persone dipendenti, in preda a ben altri meccanismi che regolano il proprio comportamento di addiction, l’accusa di mafiosità scivola addosso senza che se ne accorgano. Il messaggio viene invece colto dalla società in generale, che dispone di un motivo in più per prendere le distanze dai “drogati”, rappresentati con un’immagine un po’ meno malata e un po’ più criminale. L’unico effetto è dunque quello di creare intorno alle persone che fanno uso di sostanze un ulteriore vuoto (nei migliori dei casi) oppure dei veri e propri atteggiamenti di condanna e di rifiuto attivo. Sulla vicenda di Stefano Cucchi, la posizione dell’allora sottosegretario Carlo Giovanardi (ora senatore PDL) e del Dipartimento di lotta alla Droga  sono purtroppo esemplari.

Per quanto riguarda i giovani consumatori, spiegare loro che consumando sostanze psicoattive illegali si rendono indirettamente complici dell’assassinio di Falcone e Borsellino, significa “chiudere” anziché “aprire” opportunità preventive. I giovani sono abilissimi nel cogliere l’ipocrisia, l’incongruenza e l’incoerenza di chi chiede loro comportamenti limpidi, onesti e coerenti. Di chi è la responsabilità della mancanza di leggi (o il varo di leggi clamorosamente “limitate”) sul riciclaggio di denaro sporco, sul segreto bancario, sui paradisi fiscali, sul falso in bilancio e sulla corruzione? E chi ha deciso l’impossibilità di accedere a modici acquisti di cannabis per via legale, rendendo automaticamente “fuorilegge” centinaia di migliaia di consumatori oggi in Italia? Chi, con un decreto legge, senza dibattito parlamentare, ha promulgato una legge che mette nella stessa tabella di pericolosità la cannabis con la cocaina e l’eroina, condannando alla stessa elevata entità delle pene chi è sorpreso ad acquistare dosi leggermente superiori a quelle definite come consumo personale?

La credibilità di un messaggio non si può disgiungere dall’autorevolezza della sua fonte. I giovani giudicano chi li giudica, e partono a loro volta al contrattacco: se “fiutano” ipocrisia, non solo si rifiutano di ascoltare ciò che viene detto loro, ma sono fortemente tentati di fare l’opposto. E perché non dovrebbero, quando chi manda loro moniti non è in grado di offrire coerenza? La stessa contraddizione si sconta nel tentativo di spiegare ai ragazzi una improponibile graduatoria tra gli effetti nocivi di sostanze illegali (cannabis) e legali (alcol e tabacco) per giustificare che solo la prima è proibita. Cosa è nocivo e cosa non lo è, per questo Stato?

Non abbiamo bisogno di campagne pubblicitarie universalistiche che, dopo aver rappresentato i consumatori come persone che si fumano il cervello o si trasformano in vampiri, oggi li descrivono con la coppola e la lupara in mano.

Leopoldo Grosso
Vice presidente Gruppo Abele