Le municipalità italiane – dopo gli sconfortanti appelli ispirati dal Dipartimento Antidroga (Dpa) contro i consumatori di sostanze psicoattive visti come sostenitori delle mafie – tornano ad essere soggetti attivi nelle politiche sulle droghe? Presto per cantar vittoria, ma i due ordini del giorno sulla cannabis approvati dal Consiglio Comunale di Torino il 13 gennaio scorso quanto meno aprono uno spiraglio (scarica: ODG_Cannabis_terapeutica_torino.pdf – ODG_legalizzazione_torino.pdf ). Il primo, promosso dal radicale Silvio Viale, approvato a grande maggioranza con soli tre voti contrari, invita la Regione Piemonte a dare il via libera all’utilizzo di farmaci a base di cannabinolo e il ministero della Sanità ad autorizzarne la produzione sia su base naturale, sia su base chimica. Il secondo, primo firmatario Marco Grimaldi di Sel, riprendendo la proposta di legge dei senatori Ferrante e Della Seta, impegna Sindaco e Giunta «ad attivarsi presso il Parlamento affinché sia iniziato il confronto sul passaggio da un impianto di tipo proibizionistico ad un impianto di tipo legale della produzione e della distribuzione delle droghe cosiddette “leggere”», prevedendo anche che «un successivo decreto potrebbe determinare le caratteristiche dei prodotti destinati alla vendita al dettaglio, della tipologia degli esercizi autorizzati alla vendita».
Non è una rivoluzione, ma nello scenario iperproibizionista che regna nel nostro paese, nonché nella distrazione sul tema droghe che caratterizza la gran parte delle città italiane, è un passaggio cui prestare attenzione. Innanzitutto perché la municipalità di una grande città in cui il fenomeno dei consumi è rilevante e plurale si esprime per una revisione della legge Fini Giovanardi, rilevandone i limiti. Ma anche perché una città fa sentire la propria voce, candidandosi – di nuovo o finalmente – ad essere propositiva, ricordando come approcci di maggiore tolleranza e lo stesso approccio di riduzione del danno sono stati, dal 1980, in tutta Europa proprio il prodotto dell’azione locale e municipale. Un primo effetto già si vede: altre città stanno per presentare ordini del giorno simili, e questo può aprire a nuove sensibilità anche nel mondo della politica, che sul tema potrebbe recuperare almeno po’ della distanza che la separa dai cittadini, e trovare un terreno propositivo d’azione, magari proprio sostenendo con maggiore convinzione le politiche di riduzione del danno.
Sono moderatamente ottimisti anche a Infoshock, la realtà autorganizzata torinese che sta lavorando a una possibile versione italiana dei Cannabis Social Club (Csc), sull’onda delle esperienze europee che cercano vie di legalizzazione e gestione “controllata” dal basso di produzione e consumo individuale, terapeutico e ludico. Ma soprattutto, per i futuri Csc, l’ordine del giorno apre e invita alla possibilità di una regolamentazione «i cui punti a favore sono la non punibilità della coltivazione a uso personale e la possibile cessione per consumo immediato di una piccola quantità di sostanza». Come da copione, dalla curia ad alcuni media locali e alcune comunità, si è scatenata la campagna terroristica contro la canapa, adeguatamente adottata a distanza dal Dpa, ma la pragmatica ricerca di una soluzione ragionevole e regolamentata, che gli stessi consumatori stanno elaborando, dà loro torto: c’è una diversa sensibilità, nel paese, e una diversa ricerca in tutta Europa, e non sarà un nuovo terrorismo ideologico a fermarle. Intanto, per chi volesse seriamente informarsi, vale sempre l’attualissimo testo di Morgan e Zimmer, “Marjiuana. I miti e i fatti” (Vallecchi), oltre le trappole di un’informazione drogata.