La politica ha chiari i suoi obiettivi quando disegna e mette in atto le strategie antidroga? Questa è la domanda chiave che si impone al termine della lettura del recente studio sulle politiche della droga nel Regno Unito (An analysis of UK drug policy): il rapporto, redatto da due esperti, Peter Reuter e Alex Stevens, è stato commissionato dalla Commissione per la politica delle droghe (Ukdpc), un organismo indipendente che si propone di promuovere politiche “scientificamente fondate”.
Il quesito è d’obbligo sin dalle prime battute, quando Reuter e Stevens abbattono il luogo comune secondo cui i controlli legali (imperniati sulla proibizione e la punizione) avrebbero la finalità di eliminare o quanto meno diminuire i consumi fra la popolazione. Col conseguente corollario: nei paesi con un approccio più punitivo, si registrerebbe una prevalenza di consumi più bassa, il contrario nei paesi più “liberali”. Come ama ripetere il capo dell’agenzia Onu sulle droghe (Unodc), Antonio Costa, «ogni paese ha il problema droga che si merita» (vedi anche P. Cohen in Fuoriluogo, ottobre 2006). Mai slogan si rivela più infondato, solo guardando all’esempio di due paesi europei dalle politiche opposte, la Svezia e l’Olanda: «ambedue – sostengono gli autori – hanno percentuali più basse di consumo complessivo (ma anche di consumo problematico) del Regno Unito». In altre parole, sembra che i fattori socioculturali abbiano più influenza dei controlli legali nel modellare i consumi. Una riprova si ha guardando alla declassificazione della canapa, entrata in vigore in Gran Bretagna nel 2004, con effetti di sostanziale depenalizzazione dell’uso personale: gli oppositori sostenevano che l’allentamento repressivo avrebbe comportato un aumento dei consumi. Al contrario, c’è stato un declino, o, per meglio dire, è continuata la lenta flessione della prevalenza della canapa, senza che la modifica normativa incidesse sull’evoluzione del fenomeno.
Se non possiamo giudicare le politiche dal livello dei consumi, quali possono essere i criteri di giudizio? Risponde il rapporto: si dovrebbe guardare non tanto al consumo in generale, quanto alla “problematicità” di alcuni tipi o modelli di consumo. In altri termini, le droghe illegali vanno “allineate” a quelle legali: come per l’alcol, la sanità pubblica guarda agli stili rischiosi e dannosi di consumo, più che all’uso in sé. Dunque, «le politiche di contrasto alle droghe dovrebbero proporsi di ridurre il livello dei danni correlati (mortalità, salute, crimine)». C’è da notare che questo nuovo obiettivo non semplifica le cose, se non altro perché il consumo di droga interagisce con altri problemi, come ad esempio la povertà. Sembra infatti che «i modelli più dannosi di consumo siano più diffusi fra le persone disoccupate, non qualificate, in difficoltà finanziarie e senza casa o comunque senza una dimora stabile». Un’associazione fra consumi intensivi e deprivazione socio economica che andrebbe tenuta in maggiore considerazione nel disegnare le politiche, anche perché la classica interpretazione (o luogo comune ) che vede la droga come causa della “miseria” del tossicodipendente non trova conferma dall’esame dei differenti stili di consumo: infatti, il consumo ricreazionale non è prerogativa dei gruppi socialmente esclusi. Quanto è opportuno allora concentrare attenzione e risorse sul “problema droga” e non sulle politiche sociali? La domanda è per certi versi ingenua, perché la politica, lungi dal lasciarsi guidare dalle evidenze scientifiche, o semplicemente dal buon senso, è sempre più impegnata alla rincorsa del “cattivo senso” mediatico. Non a caso, l’interpretazione sociale del fenomeno droga trova poca fortuna, mentre – lamenta il documento – è soprattutto l’associazione causale droga-crimine a occupare il dibattito britannico. Il che non stupisce, poiché dell’ossessione securitaria di Downing Street abbiamo avuto conferma in questi giorni, col lancio della singolare “prevenzione” rivolta ai piccoli futuri delinquenti annidati nel ventre materno.
Guardiamo dunque da vicino il pilastro principale delle politiche antidroga britanniche: il law enforcement, la legge penale e la sua applicazione.
Con la declassificazione della canapa nel 2004, gli arresti per detenzione di quella sostanza sono diminuiti di un terzo. Ciononostante, se si esaminano le cifre sul lungo periodo, l’impatto repressivo del Drug Misuse Act è aumentato: nel 2004/05, 85.000 persone sono state arrestate in Inghilterra e Galles, e 42.000 in Scozia. Dal 1994, sia il numero delle persone condannate che la lunghezza media delle condanne sono cresciuti. Il numero delle persone incarcerate per detenzione di droga ha raggiunto il picco nel 1998 per poi decrescere, tuttavia nel 2004 era ancora l’8% più alto del 1994. Interessante è il confronto fra l’andamento della lunghezza delle condanne per droga rispetto a tutte le altre. Anche queste ultime sono aumentate dal 1994, tuttavia l’aumento degli anni inflitti per droga è incomparabilmente più alto.
L’incremento della penalità è andato di pari passo con l’aumento delle persone in trattamento, poiché il piano d’azione del 1998 ha privilegiato forme para-coercitive di accesso alla cura. Così, il Drug Treatment and Testing Order dà ai tribunali la facoltà di “condannare” al trattamento gli imputati per reati di droga (l’alternativa è il carcere); mentre, con il Drug Abstinence Order, chi sconta la pena sul territorio può essere sottoposto a test antidroga. Il giudice può inoltre ordinare il requisito dell’astinenza, come condizione per rimanere fuori dal carcere. Uno studio di valutazione ha mostrato la scarsa efficacia di queste misure nel diminuire il consumo delle droghe più rischiose, mentre è alta la percentuale di coloro che rientrano in prigione per aver violato queste ordinanze.
Nonostante la centralità strategica della repressione nella politica inglese, questa ha fallito i suoi obiettivi. «Se fosse efficace – argomenta il documento – i prezzi della droga sarebbero più alti e ci sarebbe meno droga in circolazione». Il che non è, anzi i prezzi sono diminuiti negli ultimi anni. Possiamo riformulare la domanda iniziale: la politica si preoccupa di governare al meglio i fenomeni o di “lanciare messaggi” contro la (immoralità della) droga?