Si è parlato molto nelle ultime settimane a Firenze di droga a scuola. Casus belli è stato l’intervento “olfattivo” dei cani negli istituti superiori, visto come argine per dissuadere i ragazzi dai cattivi comportamenti, identificati dai cani senza alcun ragionevole dubbio. Alcuni dirigenti scolastici però hanno rifiutato una prassi di questo genere, con stupore di chi considerava la prevenzione dissuasiva l’unica arma di difesa possibile. Si è originato un dibattito che – al di là dei cani si/cani no – ha riguardato il consumo giovanile di sostanze illegali e, anche per l’impegno della FLC CGIL, la scuola come luogo formativo e non come istituzione totale.
In primo luogo occorre definire il problema: parliamo di dipendenze in generale o solo di sostanze illegali? e in quest’ultimo caso, solo di cannabis? perché è questa, e solo in minima quantità, che i cani talvolta trovano nelle scuole. E in definitiva, cosa preoccupa? la salute degli studenti, gli aspetti penali, la prossimità al mercato deviante, oppure il fatto che tutto ciò avvenga a scuola?
Altra questione basilare è la centratura sul prevenire o sul sanzionare. I dati presentati dal criminologo britannico Alex Stevens in un recente seminario promosso da Forum Droghe evidenziano che – a fronte di una stabilizzazione dei consumi nei paesi europei – le politiche penali sono molto diverse, quindi la legge viene usata come deterrente (peraltro di scarsa utilità) e non come strumento di controllo del fenomeno.
Per conoscere, in ogni caso, il trend dei consumi sono disponibili i dati “ufficiali” del Dipartimento delle Politiche Antidroga, secondo i quali il consumo di cannabis, almeno una volta nella vita, riguarderebbe meno del 25% dei ragazzi. Dato preoccupante per chi lo voglia leggere come uno su quattro, ma sicuramente inferiore alla realtà.
A fronte di tutto ciò, le evidenze scientifiche dimostrano che per gli interventi preventivi è basilare analizzare indicatori di setting in grado di dare il “senso” e la “ritualità” dei consumi, la percezione del rischio e soprattutto le esperienze di esplorazione di questo tipo di comportamenti. Si studia la resilienza, nel senso di acquisire le capacità di coping nel confrontarsi con il rischio, proprio o dei pari, e con le sue possibili conseguenze, come la guida dopo il consumo.
Quanto agli interventi, si è rivelata fallimentare una modalità del tipo causa-effetto (intervento repressivo o sanzionatorio, quindi cessazione del comportamento indesiderato) a favore di modalità sistemiche, in cui una politica preventiva nasce da un insieme di attori sociali, utilizzando pienamente le risorse territoriali. Lavorare con una logica resource oriented permette di vedere i giovani non come consumatori (e non solo di sostanze) ma come partecipanti attivi nella costruzione del benessere.
Un’ultima considerazione riguarda la “fragilità” del contesto scolastico. La progressiva svalorizzazione della scuola, in particolare pubblica, porta a percepirla come un ambiente di scarso valore formativo e di scarsa credibilità sociale, per cui tende ad assumere le caratteristiche di contesto ricreazionale, con i comportamenti tipici dei luoghi di divertimento.
Se vogliamo davvero parlare di prevenzione a scuola, è necessario ridare valore educativo e formativo sia alle professionalità al suo interno sia a quelle presenti nella comunità locale (ASL, SerT, forze dell’ordine, governo locale), progettando un sistema in cui la scuola è un nodo significativo della rete, non con finalità di ispezione (i cani, o anche l’esame generalizzato del capello), ma per la costruzione del benessere e della convivenza civile.