«Troveremo una soluzione per dire con più chiarezza che drogarsi non è lecito. […] Ma il carcere per i tossicodipendenti, quello no. In coscienza non mi sento di arrivarci. E per la verità mi sembra non ci pensino neanche i socialisti». Così dichiarava, certamente in buona fede, Rosa Russo Iervolino, madre della disciplina sulle droghe all’epoca in discussione (“la Repubblica”, 30-31 ottobre 1988).
Il numero di quanti sono finiti in galera per quella legge in un quarto di secolo (sic!), nonostante le mitigazioni introdotte dal referendum del 1993 e, all’opposto, grazie anche alla recrudescenza portata dalla legge Fini-Giovanardi del 2006, è impressionante e probabilmente incalcolabile per intero. Basti solo ricordare che i detenuti presenti in carcere al 31 dicembre sono passati dai 29.113 del 1990 ai 34.857 del 1991 e ai 46.968 del 1992.
Un numero invece definito è quello delle sanzioni amministrative (per modo di dire, dato che in caso di inottemperanza possono divenire penali). Secondo i dati più recenti, contenuti ne Le tossicodipendenze in Italia, anno 2013, a cura del ministero dell’Interno, dall’11 luglio 1990 al 31 dicembre 2013 le segnalazioni ai Prefetti a norma dell’art. 75 T.U. 309/90 – che sanziona le condotte di minore gravità, vale a dire la detenzione per uso personale – sono state in totale 989.702, 243.220 le sanzioni comminate e 142.953 le richieste di programma terapeutico, mentre le persone segnalate sono state ben 828.416 (33.431 nel solo 2013), di cui 72.754 minorenni.
Le segnalazioni riguardano in larghissima misura il possesso di cannabinoidi (727.842 in totale, di cui 28.362 nel 2013), seguiti a distanza da eroina (rispettivamente 134.581 e 2230) e cocaina (99.146 e 4350). Esattamente rovesciata la casistica dei morti: nel 2013 si sono registrate 349 vittime (secondo i dati aggiornati al 5 novembre 2014); dei 199 casi in cui è stato possibile risalire alla presunta sostanza causa del decesso, 148 sono da eroina, 30 da cocaina e solo 2 da hashish, numero di cui oltretutto è lecito dubitare, giacché «si tratta di dati non sempre supportati da esiti peritali o da esami autoptici e/o tossicologici». Insomma, la sostanza meno pericolosa è quella più pesantemente criminalizzata e perseguita.
Il fallimento delle norme in vigore è testimoniato dai numeri ma anche ammesso dagli addetti. Come scrive in premessa la pubblicazione: «Il consumo di sostanze stupefacenti, pur coinvolgendo in gran parte il mondo giovanile, continua ad avere grande diffusione nella popolazione in generale. Infatti, l’uso di droga risulta molto diffuso anche tra persone adulte e ben integrate nel contesto sociale e lavorativo, configurandosi come fenomeno esteso a tutti gli strati della società e quindi non più relegato alla condizione di emarginazione sociale».
Si potrebbe concludere con le parole di allora del vicepresidente del Consiglio, il socialista Gianni De Michelis, tifoso della linea punizionista: «È apparso chiaro che la legge del 1975 non è servita ad arginare il fenomeno della droga né a impedirne l’aggravarsi. Quindi è ormai necessario compiere un salto di qualità» (“la Repubblica”, 29 ottobre 1988).
Quel «salto di qualità», la nuova legge del 1990 imposta dagli oltranzisti catto-socialisti, oltre a non arginare, ha prodotto centinaia di migliaia di inquisiti, sanzionati, imprigionati, talvolta suicidati, costretti a un uso di sostanze reso più pericoloso dalla clandestinità e dal governo mafioso del mercato, con relativo maggior rischio di contrarre AIDS e altre malattie. In un paese civile sarebbe materia di class action e richiesta di risarcimento dei danni, individuali e sociali.