Secondo le dichiarazioni raccolte dal Washington Post, il sindacato che rappresenta i giocatori di football americano che giocano nella National Football League (NFL) presenterà nelle prossime settimana una proposta per modificare il regolamento sulle droghe della Lega relativamente al consumo di marijuana. La proposta chiede una tolleranza ampia che comprenda anche il consumo non strettamente terapeutico della cannabis. La questione non è di poco conto, ad oggi il regolamento della Lega prevede la sospensione per i giocatori trovati positivi alla cannabis, con un minimo di 35 nanogrammi di THC (tetraidrocannabinolo) per millilitro di urine, minimo innalzato nel 2014 rispetto ai precedenti 15 nanogrammi. In caso di recidiva la sospensione dalla Lega può arrivare ad essere per sempre.
Le norme NFL in contraddizione con le riforme negli USA e l’allarme per l’abuso di oppiacei
La norma è evidentemente in contraddizione con le legislazioni dei vari stati americani nei quali la marijuana è stata legalizzata sia per uso terapeutico che, in molti casi, anche per uso ricreativo. Lo è particolarmente per i giocatori di football che sono spesso vittime di contusioni, rotture e dolori articolari conseguenti al tipo di sport che praticano, che possono provocare conseguenze dolorose anche per tutta la vita.
La terapia più comune per i giocatori della NFL è quella con antidolorifici di origine oppiacea, che non sempre sono la soluzione migliore anche a causa dell’assuefazione e della potenza della sostanza; così non è difficile trovare giocatori che utilizzano terapie a base di cannabis anche durante la loro carriera malgrado il regolamento punisca tale pratica. La discussione non è recente e solo qualche mese fa l’associazione Doctors for Cannabis Regulation insieme ad un gruppo di ex giocatori ha inviato una lettera aperta alla Lega sollecitando una completa depenalizzazione della cannabis. Il via libera alla modifica dei regolamenti non dovrebbe trovare troppe resistenze in considerazione del cambiato quadro normativo e del sempre maggiore allarme provocato dall’abuso di medicinali a base di oppiacei in Usa.
Doping. Cosa succede in casa nostra
In casa nostra il regolamento adottato sul “doping” nello sport è quello della Wada (l’Agenzia Mondiale per l’Antidoping) che ha inserito la cannabis fra le sostanze proibite (ma soltanto in caso di uso in competizione) ed alzato il limite tollerato presente nell’urina da 15 a 150 nanogrammi nel 2013. Sulla decisione ha sicuramente inciso il fatto che durante i Giochi Olimpici a Londra del 2012 gli atleti risultati positivi alla cannabis sono stai più di 400. Infatti mentre l’Italia osservava sgomenta le lacrime del marciatore campione olimpico Alex Schwazer, risultato positivo all’Epo un altro atleta di uno sport altrettanto nobile il judoka Nicholas Delpopolo veniva squalificato dopo essere stato trovato positivo alla cannabis. È difficile pensare che le cose possano essere equiparate, i trattamenti a cui si sottoponeva Schwazer permettono effettivamente migliorare le prestazioni fisiche oltre i propri normali limiti, mentre la stessa cosa non si può dire per la cannabis. Un metro di paragone potrebbe essere quello con l’alcol che è vietato in competizione solo per alcune discipline quali l’automobilismo, il tiro con l’arco, gli sport di aria, la motonautica. Più per motivi di sicurezza che per una reale influenza sul risultato sportivo in sé, mentre viene tollerato in tutti gli altri. L’alcol era in effetti utilizzato da vari sportivi e fino a non molto tempo fa addirittura suggerito per attenuare la tensione prima di alcune gare.
La Wada decide di inserire una sostanza fra quelle dopanti quando questa soddisfa almeno due dei seguenti 3 criteri:
- Ha il potenziale per migliorare o migliora le prestazioni sportive.
- Rappresenta un rischio reale o potenziale di salute per l’atleta.
- Viola lo spirito dello sport.
In relazione alla cannabis è facile capire che nessuno dei 3 criteri è pienamente soddisfatto, ed è per questo che la Wada ha avuto gioco facile ad alzare i limiti senza scatenare alcuna reale protesta. Insomma nello sport pare che il buon senso stia prendendo campo, mentre continua la persecuzione per le strade d’Italia anche a causa della famigerata riforma del codice della strada. Qua il buon senso invocato anche dalla Cassazione (7899/2016) non sempre viene applicato, infatti ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 187 del codice della strada non è sufficiente aver assunto droghe ma è necessario che la persona sia alla guida in stato di evidente alterazione causato da tale assunzione. Mentre nelle nostre strade le sospensioni per cannabis sulla base degli esami delle urine fioccano – nonostante sia noto che la stessa sostanza permanga per settimane nel corpo – e aumentano i forzati del girone di analisi e lavori di pubblica utilità.