Di recente, molti quotidiani hanno dato ampio risalto a una decisione particolarmente “rigorosa” delle sezioni unite penali della Corte di Cassazione in materia di cessione di sostanze stupefacenti.
Il caso sottoposto all’attenzione delle sezioni unite era quello della cessione di una sostanza contenente una concentrazione di principio attivo inferiore alla cosiddetta “soglia drogante”.
Secondo la giurisprudenza, assolutamente costante, delle sezioni semplici della Corte in casi del genere non poteva configurarsi il reato di cui all’articolo 73 del DPR 309/90, in quanto “allorché il principio attivo presente nello stupefacente sia così scarso da non poter produrre alcun effetto drogante si è in presenza di una sostanza inerte” e la fattispecie va ricondotta alla figura “del reato impossibile per inidoneità dell’azione a norma dell’articolo 49 del c.p., che si correla al principio di legalità poiché impone di accertare non la semplice ed esteriore conformità del fatto al modello legale, ma la sua conformità sostanziale al medesimo”.
Come è noto, nel nostro sistema giudiziario alla Corte di Cassazione, e alle sezioni unite in particolare, è affidato il delicato compito di assicurare la uniforme interpretazione del diritto; nel gergo dei giuristi si chiama funzione nomofilattica della Corte di Cassazione. A differenza di altri sistemi, però, nel nostro ordinamento il precedente non è mai vincolante e l’effettività della funzione nomofilattica non è affidata solo all’autorevolezza dell’organo decidente, ma anche, anzi direi soprattutto, alla forza della argomentazione logico-razionale della decisione. Laddove quest’ultima manchi o sia insufficiente non solo è difficile che venga assicurata un’uniforme interpretazione del diritto, ma rischia di risultarne inficiata anche l’autorevolezza della istituzione cui quel compito è affidato.
In questo caso, non può non rilevarsi come la capacità persuasiva della decisione delle sezioni unite sia praticamente inesistente. Anzi, il principio interpretativo affermato appare così palesemente contrario alla logica da rendere molto probabile l’apertura di un contrasto con le sezioni semplici.
Dopo un lungo excursus, sufficientemente erudito ma del tutto inconferente, sulle Convenzioni internazionali in materia di stupefacenti, sulle decisioni della Corte Costituzionale, sul risultato referendario e dopo un altrettanto lunga, ma altrettanto inconferente, disamina della dottrina e della giurisprudenza in materia di delitto impossibile, insomma dopo un lungo parlar d’altro, le sezioni unite arrivano finalmente al punto, ma qui scompare la dotta prolissità della prima parte e la questione è risolta con un’unica apodittica frase di quattro righe: il fatto che il principio attivo contenuto nella sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta “soglia drogante”, in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità del fatto. Come dire: vendere droga è reato anche se quello che vendi non è droga. La logica, come si vede, è stringente. È questo un esempio eclatante di formalismo giuridico, di fuga dall’interpretazione che certamente non fa onore alla istituzione della Corte. La premessa argomentativa che sfugge completamente alle sezioni unite è che la legge punisce esclusivamente la cessione di sostanze stupefacenti. Il fatto che nella tabella allegata alla legge siano indicate solo le sostanze vietate e non la concentrazione minima di principio attivo non esime certo il giudice dal dovere di avvalersi delle conoscenze scientifiche in materia per stabilire se la sostanza oggetto di cessione possa qualificarsi come stupefacente. Si tratta, d’altronde, del procedimento interpretativo costantemente adottato in materia di armi, di sostanze piriche, di rifiuti tossici, di avvelenamento di acque: anche in questi casi spesso mancano definizioni legali, ma certamente il giudice non si sottrae al suo dovere di connotazione del fatto, avvalendosi degli accertamenti tecnici necessari a verificare la corrispondenza della fattispecie concreta all’ipotesi astratta individuata dal legislatore. È questo, forse, l’aspetto più grave della vicenda: il fatto che la massima autorità in materia di interpretazione della legge inviti i giudici a sottrarsi al dovere di interpretazione.
Ma in questa vicenda, oltre alla questione di merito, vi è anche, intimamente connessa, una questione di metodo che ripropone seri interrogativi sul funzionamento della Corte. Era già accaduto in un caso che ha avuto maggiore risonanza: quello della interpretazione dell’articolo 513. Anche in quel caso la questione è stata devoluta alle sezioni unite in assenza di un contrasto interpretativo. Al punto che a fronte di un orientamento costante e consolidato delle sezioni semplici viene citata, come unico precedente difforme, addirittura una decisione di undici anni fa. E anche in questo caso le sezioni unite capovolgono l’orientamento delle sezioni semplici.
Si tratta, è evidente, di uno stravolgimento della funzione delle sezioni unite, in quanto invece di risolvere un contrasto giurisprudenziale che c’è, si crea un contrasto giurisprudenziale che non c’era. E questo in una situazione in cui le regole per la formazione dei collegi delle sezioni unite rimangono ancora oscure e non trasparenti.
Il risultato è il rischio di un grave conflitto tra le sezioni semplici e le sezioni unite, dal quale deriverebbe un gravissimo danno alla credibilità e alla autorevolezza di tutta l’istituzione.
Proprio in questi giorni il CSM è chiamato a nominare il nuovo presidente della Corte di Cassazione. Oggi più che mai, è allora necessario che la scelta cada su una persona capace di ricondurre a un assetto fisiologico i rapporti tra sezioni semplici e sezioni unite, garantendo una composizione autorevole e trasparente del massimo collegio della Corte.
* di Magistratura Democratica