E’ impressionante, e anche un po’ deprimente, dopo almeno 25 anni di presenza culturale dell’antiproibizionismo e altrettanti anni di battaglie, vedere l’atteggiamento isterico e irrazionale con cui tutta la stampa in coro ha parlato (e continua a parlare) della questione dell’ecstasy dopo la morte del giovane Jannick in una discoteca vicino a Brescia.
Prima di tutto stupisce tanta agitazione di fronte ad un fenomeno che non ha nulla di nuovo. E’ infatti noto che l’uso di sostanze psicoattive proibite dalla legge tra i giovani in Italia ha almeno trent’anni di storia. Ma i giornalisti sembrano non accorgersene, lanciano l’allarme come se si trattasse di cose inaudite, riscoprendo i toni sensazionalistici che utilizzavano negli anni ’70, quando, appunto, il fenomeno era, almeno agli occhi dei giornalisti, nuovo. C’è forse qualcosa che lo sia effettivamente? Qualcosa di effettivamente nuovo probabilmente c’è: la dimensione quantitativa del fenomeno, che però la stampa non mette particolarmente in rilievo. Nel periodo che va dalla fine degli anni ’60 alla fine degli anni ’70 il numero dei consumatori di droghe illegali di qualsiasi genere, da quelle non pericolose come la cannabis a quelle pericolose, come l’eroina, era relativamente ristretto, seppur crescente. Si trattava pur sempre di una minoranza piuttosto esigua anche se abbastanza visibile. Oggi il consumo di “droghe da discoteca” è un consumo di massa: se anche non coinvolge la maggioranza dei giovani, si tratta di un fenomeno che, nella sola Lombardia, coinvolge decine, forse centinaia di migliaia di giovani e non più solo migliaia come negli anni ’60 e ’70. Anche attenendosi a stime prudenti, si può comunque ipotizzare che ogni sabato sera nella sola Lombardia ci siano almeno centomila giovani sotto l’effetto dell’ecstasy o sostanze analoghe, o anche sotto l’effetto di sostanze psichedeliche. Queste cifre dovrebbero indurre ad una riflessione razionale piuttosto che alle frasi ad effetto. Ma per capire un po’ meglio come stanno le cose, dobbiamo occuparci anche dell’aspetto qualitativo del fenomeno. E’ noto che nelle discoteche vengono consumate pastiglie di ecstasy ed affini, ma anche “trip”: i giovani consumatori di oggi spesso mostrano di non sapere nemmeno che il termine “trip” nacque negli anni ’60 per indicare l’esperienza conseguente all’ingestione dell’LSD, e che i “trip”, che per loro non sono altro che cartoncini che si succhiano, sono dosi di dietilammide dell’acido lisergico. Ciò trova conferma nella notizia, comparsa qualche volta sulla stampa negli ultimi tre anni, di qualche sequestro di LSD. Mi pare che l’accostamento di queste due sostanze possa gettare uno sprazzo di luce sul fenomeno: seppure si tratta di sostanze dissimili dal punto di vista chimico, esse hanno in comune il fatto di provocare un’alterazione dello stato di coscienza. Tale alterazione è l’effetto prevalente nel caso dell’LSD ed è secondaria all’effetto eccitante nel caso dell’ecstasy, ma è pur sempre presente in entrambe le sostanze. E’ del resto noto che i consumatori di ecstasy dichiarano apertamente di apprezzarla non solo perché permette loro di ballare tutta la notte, ma soprattutto per la sensazione di grande sintonia con gli altri che provoca; si può dire che l’ecstasy viene apprezzata prima di tutto per l’effetto “enteogeno”, che ha indubbie affinità con l’effetto psichedelico. D’altra parte è noto che lo LSD è stato usato sperimentalmente e in modo promettente come coadiuvante nella psicoterapia, e che anche l’ecstasy è stata sperimentalmente usata allo stesso scopo.
Dove voglio arrivare con questo discorso? Ad affermare che se si vuole capire qualcosa di questo fenomeno, dobbiamo tentare di inquadrarlo in una prospettiva storica, e per far ciò dobbiamo paragonarlo con fenomeni affini del periodo ’68-’78; dobbiamo paragonarlo cioè non solo col consumo di droghe in quel periodo, ma col consumo di droghe che rispondano a motivazioni analoghe a quelle che spingono al consumo nelle discoteche di oggi. L’unico fenomeno paragonabile in quegli anni è dunque, a parer mio, il consumo di LSD. Mi sento tranquillamente di affermare che in quegli anni il fenomeno, che ho avuto modo di osservare da vicino, in tutta la Lombardia non coinvolgesse più di un migliaio (al massimo due migliaia) di persone. Tutto questo per dire che in meno di trent’anni siamo saltati nella sola Lombardia da un fenomeno che coinvolgeva meno di duemila giovani (ed in genere non più di una volta al mese, probabilmente meno) ad uno analogo che ne coinvolge centomila (ed in genere più di una volta al mese). Mi pare che questo dovrebbe bastare a chiunque sia sano di mente, e non sia affetto da pregiudizi che non hanno nulla da invidiare a quelli dei vari integralismi islamici, cristiani, o indù, per vedere l’assoluta inutilità del proibizionismo. Mi pare anche lecito ribadire che è evidente che il proibizionismo fa danni (e proprio dal punto di vista dei proibizionisti stessi), se in meno di trent’anni il consumo di psichedelici ed affini si è centuplicato: ma sappiamo tutti che l’argomentazione post hoc, ergo propter hoc è invalida. Vediamo allora di analizzare ancora un po’ le cose dal punto di vista qualitativo. L’esigua minoranza che faceva uso di sostanze psichedeliche nei primi anni ’70 era generalmente informata su quello che faceva. La maggior parte sapeva chi era Albert Hofmann, il chimico della Sandoz che scoprì lo LSD nel 1943. Praticamente tutti sapevano chi era Timothy Leary (lo psicologo ricercatore dell’Università di Harvard che aveva reso noto lo LSD ai non addetti ai lavori), e quasi tutti avevano una conoscenza almeno indiretta della guida all’esperienza dello LSD scritta dallo stesso Leary basandosi sul libro tibetano dei morti e sapevano delle potenzialità mistiche e spirituali connesse con l’esperienza della sostanza. Ciononostante poteva accadere che qualcuno ne facesse un uso scriteriato, e che riportasse danni psicologici dall’esperienza psichedelica. Ma che cosa sanno i giovani del 2000 di queste sostanze? Assolutamente nulla. L’ecstasy è una pastiglia che si prende per stare meglio con gli amici in discoteca, e i “trip” sono dei cartoncini che si succhiano. E’ facile prevedere che un uso di massa di queste sostanze, accompagnato con la totale ignoranza delle caratteristiche psicologiche (prima ancora che chimico-biologiche) dei loro effetti, possa comportare seri problemi. E di questa situazione dobbiamo ringraziare questa forma di fanatismo religioso nemmeno cosciente di esserlo che è il proibizionismo. Esso infatti ha impedito e continua ad impedire non solo la diffusione fra i giovani di un’adeguata conoscenza scientifica su queste sostanze, ma soprattutto che la conoscenza di certe esperienze possa essere trasmessa alla luce del sole da una generazione all’altra, o comunque dai più anziani ai più giovani. Solo l’abolizione del proibizionismo può permettere di iniziare timidamente ad affrontare il problema per quel che è: un problema culturale, psicosociale, e solo secondariamente sanitario, e ad abbozzare una risposta. Una risposta non può prescindere dalla constatazione che la ricerca di stati alterati di coscienza è comunque sempre più diffusa tra i giovani, e che l’alterazione preferita è quella che permette loro di trovare una sintonia con l’altro che, evidentemente, in questo contesto storico sociale, normalmente manca.
Non è questa la sede per affrontare un discorso sui massimi sistemi, sulla mancanza di senso di questo mondo di fine (e inizio) millennio alla quale i giovani fanno fronte con l’uso di entactogeni e psichedelici, e sulla mancanza di prospettive storico sociali future capaci di fornire una direzione alle esistenze individuali in formazione, discorso che peraltro andrebbe fatto. In mancanza di questo senso e di queste prospettive, mancanza che trascende le capacità progettuali individuali e di gruppo, mi accontento di porre una questione più modesta. Esiste qualche istituzione che si occupi di fornire agli adolescenti che si accostano alla vita delle abilità che li mettano almeno in grado di comunicare con gli altri i propri desideri più veri, i propri stati emotivi, che significa contemporaneamente comunicarli a se stessi prendendone coscienza? Qualcuno si preoccupa di come insegnare a un giovane ad affrontare un’esperienza psicologica fuori dall’ordinario? Ovviamente la risposta è no. Ed è altrettanto ovvio che l’unica istituzione che potrebbe farlo è la scuola, che in realtà è in genere completamente sorda a qualsiasi esigenza di vera crescita psicologica dei giovani, e si preoccupa solo che essi si mettano in grado di emettere in determinate circostanze dei formulari verbali per lo più avulsi dalle loro reali esigenze di crescita. D’altra parte chi progetta una scuola diversa sembra più preoccupato di fabbricare merci meglio piazzabili sul mercato del lavoro che di preparare esseri umani in grado di affrontare la vita in modo soddisfacente per loro e per gli altri. Questo, della formazione dei giovani, della cultura da trasmettere e dei modi di trasmetterla, e del tipo di formazione che dovrebbe avere chi è preposto dalla società a trasmetterla è l’unico problema serio da porsi di fronte all’impasticcamento di massa. Ma finché c’è il proibizionismo si continuerà a non fare altro che campagne sensazionaliste a singhiozzo destinate a riaffermare ritualmente la sacralità del proibizionismo stesso; e a quelli della mia generazione non resta altro che sperare che i giovani abbiano abbastanza intelligenza e capacità per cavarsela da soli nonostante l’imbecillità delle istituzioni, esattamente come abbiamo fatto noi; ed augurare loro di lasciare meno caduti per strada.