Con la legge Craxi-Jervolino-Vassalli del 1990, l’intervento penale nei confronti del consumo di sostanze era divenuto “massimo”, attraverso la punizione, con le stesse pene previste per il narcotraffico, di qualunque condotta di detenzione di sostanze oltre una certa (molto ridotta) quantità, definita dalla legge dose media giornaliera. Il detentore della sostanza in eccedenza rispetto alla dose media era considerato una spacciatore, con una presunzione che i giuristi definiscono assoluta cioè non superabile. Per fortuna il referendum del 1993 ha eliminato questa gravissima ingiustizia, riconducendo il sistema penale in materia di stupefacenti dentro un modello di legalità, secondo il quale è onere dell’accusa dimostrare la illiceità della condotta dell’accusato. Per cui è l’accusa a dover dimostrare che le sostanze stupefacenti detenute dall’accusato, indipendemente dalla loro quantità, fossero destinate alla vendita o alla cessione a terzi e non ad esclusivo uso personale. E non è, invece, l’accusato a dover fornire la prova della destinazione all’uso personale delle sostanze. Negli anni successivi al referendum questi principi si sono andati via via inverando, anche se non senza resistenze, nelle decisioni dei tribunali italiani e in quelle della Corte di cassazione ed oggi si può ben affermare che essi sono (quasi) senso comune.
Alcuni pregiudizi, però, sono duri a morire e riaffiorano qua e là nelle decisioni dei giudici. A farne le spese nel nostro caso è A.G., un giovane tossicodipendente sorpreso con sette dosi «droganti» (secondo il burocratico linguaggio dei periti dei tribunali) in una zona «ritrovo abituale di spacciatori e tossicodipendenti». Nessun elemento ulteriore che consentisse di provare che il nostro A.G. fosse in quel luogo di «ritrovo» quale «spacciatore» e non quale «tossicodipendente» acquirente, per sé, della sostanza. Ciononostante nei confronti dell’accusato viene applicata la misura della custodia in carcere, e lo stesso resta ristretto per oltre cinque mesi fino a quando non viene assolto. Un normale caso di ordinaria ingiustizia, caratterizzato dall’adozione di misure cautelari in assenza di elementi sufficienti a fondare quella “prognosi di condanna” che la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione richiede ai fini dell’applicazione di misure cautelari. Dopo l’assoluzione A.G. si è rivolto alla locale Corte di Appello per ottenere una riparazione per il periodo di detenzione ingiustamente subita, secondo la norma che riconosce un diritto ad una «equa riparazione» per la custodia cautelare subita in favore di chi sia stato assolto con sentenza irrevocabile. Con l’unica eccezione per il caso in cui l’accusato abbia dato causa alla misura con «dolo o colpa grave». Ma la Corte di Appello ha respinto la richiesta di A.G. affermando che lo stesso aveva «dato causa» per «colpa grave» alla applicazione della misura in quanto deteneva alcune dosi di sostanza stupefacente in zona che era «ritrovo abituale di spacciatori e tossicodipendenti». La decisione della Corte di Appello è stata poi confermata dalla Corte di Cassazione che, con sentenza depositata il 23 settembre 2004, ha respinto il ricorso di A.G. I primi commenti alla decisione della Cassazione sono stati favorevoli, in quanto era sembrato che l’affermazione secondo la quale «il mero stato di tossicodipendenza non può configurare il dolo o la colpa grave quali cause di esclusione del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione», fosse una censura nei confronti dei persistenti pregiudizi ed una riaffermazione del principio di presunzione di non colpevolezza. Invece non è così, perché dietro quella affermazione si cela comunque un pregiudizio “colpevolista” nei confronti del consumatore di sostanze, al quale viene imputata come «colpa grave» il fatto di essersi fatto trovare in un luogo pubblico con alcune dosi di sostanza, «condotta – dice la Cassazione – altamente imprudente, che legittimamente può ingenerare… la convinzione che sussistano gravi indizi di colpevolezza». La Corte non sembra aver considerato il fatto che in un sistema proibizionista è piuttosto difficile procurarsi sostanze stupefacenti in luoghi diversi da quelli di «abituale ritrovo di spacciatori» e ha finito per ricadere nel pregiudizio apparentemente negato in premessa, dichiarando «colpevole» il consumatore di sostanze in quanto tale.