Qualche mattina fa, durante una riunione, un’operatrice racconta che in una delle sicurezze attenuate-terapeutiche-sperimentali del nostro circuito carcerario un detenuto tossicodipendente finisce in punizione se gli sfugge di chiamare la sua cella: “cella”. Che sia una cella non c’è dubbio: un fazzoletto di cemento con la branda inchiodata al pavimento, il tavolino inchiodato al muro, una finestra rettangolare con le sue brave sbarre. E poi un cancello con le sue altrettanto brave sbarre e una porta blindata spessa una spanna. Il tutto sta dentro un carcere. Però il detenuto della comunità terapeutica interna deve chiamarla “stanza”. Se no sono tutti cavoli suoi. Non credo lo abbia deciso il direttore, che sa che le celle sono celle. Lo hanno deciso gli operatori-terapeuti. La perversione e l’ipocrisia che sta dietro a questa regola, non ha bisogno di molti commenti. La pretesa di introiezione della “colpa” è tale da imporre la negazione della realtà, il ringraziamento quotidiano ai carcerieri-terapeuti, la costruzione di una realtà virtuale di redenzione, la negazione della possibilità stessa – fosse anche solo pensata – della ribellione. Quello che questa stratificazione di poteri – solidi e sottili – può comportare sull’interezza di una persona detenuta, è facile immaginarlo. Ciò che merita notare è che questo non è il nuovo carcere di San Patrignano, a Castelfranco Emilia; è una sezione “modello” legale, convenzionata, attiva da anni, di cui si narra e si discute nei convegni.
È prodotto di Russo Jervolino-Vassalli, non di Fini-Mantovano. Merita ragionare, però, sul fatto che se questo è il prodotto dell’attuale mix pena-terapia –magari già influenzato dalla cultura baldanzosa della nuova legge, ché a volte lo “spirito” si fa sentire prima della “lettera” – il mix prossimo futuro, in cui la pena schiaccia ben bene sotto il suo piede la cura, il carcere schiaccia la comunità, promette cose ben più mirabolanti. Innanzitutto, perché il consumo individuale sarà insieme reato penale e comportamento sancito come moralmente riprovevole, e la cella dell’espiazione penale sarà, per definizione, anche la stanza della resurrezione morale. Per tutti, non solo per i pochi delle attuali galere-comunità. Secondo, perché i rei-riprovevoli saranno decine di migliaia, una massa per la quale sarà necessario “mettere a regime” celle-stanze in ogni dove, che lo stato della esternalizzazione cederà di buon grado ai tanti provider (si chiamano così, quelli che ci guadagnano) disponibili sul mercato. Terzo, perché siccome tutto ciò costa assai, e nemmeno An può permettersi una ideologia che sfondi il budget, il lavoro ergoterapeutico è destinato a trovare una sua nuova “dignità” (a breve, di certo, qualche abstract più che scientifico lo riesumerà), e metterà al lavoro schiere di novelli Nick Manofredda. Quarto, perché questo governo è liberista, e ai provider non si guarda troppo in bocca, né li si asfissia con troppe norme e controlli. Quinto, perché questo go-verno ha già reso i Sert delegittimati e ancillari rispetto a certe comunità-holding, e forse finiranno col mettere qualche timbro qua e là, quando richiesto (perché se dovessero certificare qualità e appropriatezza, cosa direbbero?).
Non sembra, questo che si delinea, un contesto in cui qualcuno possa dire: ma io lo farei diversamente. Non c’è spazio per l’ingenuità, in questo disegno così coeso, nemmeno in buona fede. Sarebbe come la Croce Rossa: quando gestisce un Cpt per immigrati clandestini diventa un’altra cosa.
E non sembra che questo scenario sia né troppo pessimistico né futuribile. E già qui. Castelfranco Emilia, sezione di San Patrignano. Non a caso la comunità che ha fatto rimangiare alla regione Emilia Romagna gli standard proposti per le comunità terapeutiche; che teorizza e pratica il lavoro senza regole, diritti e garanzie valevoli sul resto del territorio patrio; che, se ha dovuto rinunciare per ora a una vera privatizzazione all’americana del carcere (un po’ grazie a noi tutti, un po’ merito delle resistenze dentro il Dap), lo apre con una convenzione a noi (cioè ai cittadini) oscura, attraverso processi di accreditamento lobbistici, in una opacità totale. Non a caso una realtà in cui – lo dicono fatti, processi e protagonisti – le stanze a volte si possono anche chiamare celle.