Negli ultimi anni (si può dire per tutta la durata del governo di centro-destra) vi sono stati vari tentativi di piegare le politiche sulle droghe e sul carcere a una dimensione privatistica. In particolare, verso la privatizzazione delle carceri. Ma anche verso la trasformazione delle comunità in carcere diffuso (e su questo punto anche il precedente governo di centro-sinistra aveva mostrato alcune tentazioni pericolose). Col decreto Giovanardi, il tentativo del governo di centro-destra è, almeno in parte, diventato realtà. Vi è infatti un comma che obbliga le comunità a una dimensione custodialistica, soprattutto per quanto riguarda una misura curativa come l’affidamento in prova per fini terapeutici. L’affidamento in prova per persone con problemi di tossicodipendenza o di alcoldipendenza era stato introdotto nell’ordinamento penitenziario nel 1985, assumendo la sua forma definitiva nel 1986, come articolo 47 bis (l’articolo 47 determina le condizioni per l’applicazione dell’affidamento in prova negli altri casi). A questa normativa si è sovrapposta, nel 1990, una nuova definizione, con l’introduzione dell’articolo 94 della legge n. 309, conosciuta come Jervolino-Vassalli. Per alcuni anni il riferimento è stato quindi a due norme apparentemente identiche, con l’innalzamento del tetto per poter usufruire di questa misura da tre a quattro anni. Poi la legge n. 165, nel 1998, ha cancellato l’articolo 47 bis mantenendo in vigore soltanto l’articolo 94 della legge Jervolino- Vassalli. Potrebbe sembrare una pura questione tecnica e di buon senso: non è molto funzionale avere due norme che definiscono la stessa materia. Non è solo così. In realtà, cambia la cornice: l’inserimento di questa misura esclusivamente nell’ambito del testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti favorisce l’interpretazione dell’affidamento terapeutico come misura prevalentemente curativa rispetto alla dimensione penale. Che non viene cancellata, ma finisce per assumere un carattere strumentale e secondario. Tanto è vero che possono accedere a questa misura anche tutti i detenuti, con problemi di dipendenza, che sono sottoposti al regime restrittivo previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, che invece non possono usufruire di altre misure alternative a meno che siano collaboratori di giustizia. Non solo. Per lungo tempo alcuni tribunali di sorveglianza hanno interpretato l’iscrizione dell’articolo 94 nell’alveo delle attività riabilitative fino ad arrivare a negare la liberazione anticipata a chi si trovava in affidamento terapeutico: il ragionamento, risibile ma non astrattamente sbagliato, era proprio che, trattandosi di una misura prevalentemente curativa, non poteva essere equiparata al normale affidamento in prova ai servizi sociali. La legge Fini-Giovanardi opera ora una nuova torsione verso la dimensione custodialistica dell’affidamento terapeutico. Il comma 6 ter dell’articolo 94 dice che «il responsabile della struttura presso cui si svolge il programma terapeutico di recupero e socio-riabilitativo è tenuto a segnalare all’autorità giudiziaria le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma. Qualora tali violazioni integrino un reato, in caso di omissione, l’autorità giudiziaria ne dà comunicazione alle autorità competenti per la sospensione o revoca di cui all’articolo 116 e dell’accreditamento di cui all’articolo 117». Appare quindi evidente l’arrivo al traguardo del tentativo di trasformare (e, in alcuni casi, di confermare) le comunità in piccole carceri diffuse sul territorio. Un primo, concreto assaggio, del modello delle carceri private. Si sa che le forme di dipendenza da sostanze stupefacenti conoscono possibili momenti di ricaduta: l’interpretazione curativa permetteva la possibilità di dialogo con il Centro servizio sociale per adulti (Cssa) e con il magistrato di sorveglianza (anche se non sempre) per definire forme di intervento dissuasivo e persuasivo che non portassero, se non in casi limite, al ritorno in carcere. Ora questa possibilità conosce forti connotazioni restrittive. Non è un caso che anche il Cssa abbia cambiato nome, diventando Ufficio dell’esecuzione penale esterna (Uepe). Un termine che cambia non poco la denominazione di origine. E, in questi casi, il nome è la rosa. La pesante misura di carattere amministrativo-gestionale e non penale nei confronti dei responsabili di struttura è stata studiata con molta attenzione. Gli operatori di comunità rientrano infatti tra le categorie previste dall’articolo 200 del codice di procedura penale: non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione della propria professione, né davanti all’autorità giudiziaria, né davanti a un’altra autorità. Non è quindi fuori luogo chiedere al ministro per la Solidarietà sociale e al nuovo governo che l’abrogazione o lo svuotamento di questo comma rientri nel pacchetto delle misure più urgenti per limitare i danni indotti dalle modifiche peggiorative a una legge come la n. 309/90, che già non brillava di suo. Ma anche le comunità potrebbero svolgere un ruolo importante in questa direzione. Finora, su questo punto, a parte qualche voce isolata, si è sentito solo un assordante silenzio. Forse è il momento di agire con iniziative condivise di disobbedienza civile.
Se la comunità è un piccolo carcere
Articolo di Redazione
La Fini-Giovanardi e l’affidamento in prova