Quando parliamo dell’Europa e del suo possibile ruolo al prossimo meeting Onu del 2008, a che cosa pensiamo esattamente? Alle istituzioni come il Consiglio o la Commissione o al Parlamento o alla cultura che la vecchia Europa rappresenta? Io penso che l’Europa intesa come Unione Europea attraversi una fase di grande difficoltà e debolezza che durerà ancora a lungo. Nelle condizioni politiche attuali con differenti e contrastanti posizioni dei paesi membri, il tentativo di rafforzare una politica unitaria dell’Unione comporterebbe il rischio di arretramenti, di mediazioni al ribasso e di limitazioni alle sperimentazioni di politiche più avanzate e di cambi nella legislazione per la depenalizzazione del consumo e per la legalizzazione.
L’Europa dovrebbe scegliere un percorso intelligente, rispettoso delle differenze culturali e delle sensibilità dei diversi paesi. In vista del 2008, dovrebbe pretendere che sia garantita la possibilità di espressione di diversi orientamenti e culture, abbandonando la pretesa centralistica e autoritaria che finora ha dominato le sedi dell’Onu. La bandiera dell’Europa deve essere il rifiuto del dogmatismo.
Il mito che la presenza delle Convenzioni internazionali sulle droghe impedirebbe la scelta di autonome decisioni degli Stati, deve essere sfatato una volta per tutte. La forza delle convenzioni risiede nel valore simbolico, più «morale» che giuridico. Molto istruttivo a questo proposito il caso dell’Italia: nel 1993 la Corte Costituzionale ammise al giudizio popolare, non ritenendolo in contrasto con un patto internazionale, il referendum poi approvato dai cittadini sulla depenalizzazione della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti, tutte, leggere o pesanti. Dunque il problema dell’autonomia dei paesi nella politica sulle droghe è politico, non giuridico.
L’altra questione che rimane aperta è quella di trovare alleanze al di fuori dei paesi sviluppati. La war on drugs ha un sistema di alleanze che vede insieme paesi ricchi e paesi del terzo mondo, democrazie e dittature. L’Europa della ragione e del diritto deve consolidare il legame con i paesi produttori per combattere insieme la violenza di una ideologia prevaricatrice.
Nel 2003 a Vienna per la prima volta alcuni paesi si sottrassero al clima tradizionale di unanimismo della retorica e del moralismo, rivendicando la bontà e la legittimità di scelte autonome nel campo della riduzione del danno. Ma questa uscita allo scoperto si è espressa con prudenza perché ancora funziona il ricatto per cui se un paese contesta il modello della repressione, viene accusato di sostenere il narcotraffico e di voler incentivare il consumo di sostanze tra i giovani. Le parole più esplicite furono quelle dell’ambasciatore del Canada che ricordando che nel 2008 saranno passati cento anni dalla Conferenza di Shangai che introdusse il sistema di controllo sulle droghe, disse: «A quella data i paesi avranno l’opportunità di verificare se questo regime di controlli e proibizione, che si è esercitato a livello nazionale e internazionale per un secolo, sia ancora valido e utile».
Che cosa deve fare dunque il Movimento? Io penso che occorra convocare un Tavolo di confronto di tutte le organizzazioni internazionali che si occupano di droghe per verificare la possibilità di costruire una piattaforma comune di denuncia del fallimento della war on drugs e di proposta di una politica alternativa. Il testo del Manifesto andrebbe pubblicato lo stesso giorno sul giornale più importante di ogni paese a cura delle organizzazioni locali.
Si dovrebbe lavorare fin d’ora per un vertice vero, non quello di cartapesta dell’Unodc, con la partecipazione di ministri, parlamentari, sindaci, premi Nobel, scienziati, medici, scrittori, consumatori, economisti, sindacalisti, artisti, per pensare globalmente e agire localmente, dichiarando l’illegittimità dell’Agenzia proibizionista e il superamento delle convenzioni che sono da considerare carta straccia: si deve mettere in marcia una Lega dei popoli per la ragione, che sposti l’accento dal Penale al Sociale.
Il Movimento infine non deve farsi rinchiudere in un recinto, in un ghetto, per reclamare la propria libertà, ma deve avere la forza di rivendicare la libertà di tutti e una capacità di governo dei fenomeni sociali attraverso politiche di inclusione e di welfare.
In Italia nel 2007 porremo nell’agenda della politica il cambiamento della legge autoritaria approvata con un colpo di mano alla vigilia della morte del governo Berlusconi. Con forza chiederemo al governo italiano di segnare una profonda discontinuità nelle sedi internazionali, a partire da quelle europee, rispetto ai cinque anni passati. Soprattutto esigeremo che i ministri Ferrero, Turco, D’Alema e Bonino non diano copertura all’azione di Antonio Costa ma che anzi pongano pubblicamente in discussione la sua permanenza a capo dell’Agenzia dell’Onu.
Se fossimo giocatori di scacchi, sarebbe il momento di fare la mossa del cavallo, in altri termini dovremmo far saltare il banco o meglio imporre regole nuove creando l’egemonia di un linguaggio diverso, attraverso un lessico, una grammatica, una sintassi dei comportamenti propri di uno stato laico, non di uno stato etico.