Un altro giro su Internet… Notizie impressionanti sull’uso del carcere negli Stati Uniti negli ultimi anni, soprattutto in relazione alla “guerra alla droga”, e un po’ di notizie tratte dai giornali con un’edizione sulla rete – decine di articoli sulla droga vengono ogni giorno selezionati dalla meritoria www.mapinc.org.
Cominciamo dal carcere, con l’articolo “Drug prohibition & the U.S. prison system” pubblicato dal Lindesmith Center (www.lindesmith.org). Alla fine del 1994, il 2,7% della popolazione adulta americana (5,1 milioni) era in prigioni federali, statali o locali, o in libertà condizionata, o con sospensione della pena.
Al 30 giugno 1995, negli USA c’erano circa 1.550.000 carcerati, più del triplo rispetto al 1980 (502.000). Si tratta soprattutto di condannati per reati legati alla droga (388.000, ovvero il 25% del totale, contro 51.950, l’8% del totale, nel 1980), per un costo annuo di circa 9 miliardi di dollari (oltre 16.000 miliardi di lire). Donne, neri e ispanici sono molto più colpiti in proporzione alle rispettive popolazioni. Al 31 dicembre 1994, il 7% dei maschi
neri erano in prigione, contro l’1% dei maschi bianchi. Per le donne, nel 1993, il 69% delle detenute lo era per reati legati alla droga (nel 1979 era il 20%): l’aumento fra il 1979 e il 1993 è stato del 2200%. Nelle prigioni federali, l’aumento fra il 1980 e il 1995 dei detenuti per reati legati alla droga è stato dell’850% (da 6.120 a 58.260). Nelle prigioni statali, l’aumento è stato del 1050% (da 19.000 nel 1980 a 220.000 nel 1995). In generale, circa un
terzo dei detenuti è costituito da condannati per crimini non violenti, senza precedenti penali. La sentenza media per semplice possesso di droghe è 22 mesi, per traffico 84 mesi.
Ci sono anche assurdità nel meccanismo delle sentenze minime obbligatorie: il possesso di 5 grammi di crack viene punito con 5 anni, come il possesso di 500 g di cocaina in polvere. Il crack è, vedi caso, molto più usato dai neri che dai bianchi. Una proposta della Sentencing Commission di equiparare le pene è stata rigettata dal Congresso nel 1995.
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Il National Institute of Health (NIH) americano – una specie di Istituto Superiore di Sanità – ha pubblicato alla fine del 1997 un rapporto (http://consensus.nih.gov), redatto da un comitato di esperti, in cui si raccomanda di trattare la dipendenza da eroina come una malattia e non come una degenerazione morale o un reato. Il rapporto parla di “leggi non aggiornate” e solleva l’allarme sul fatto che dei 600.000 dipendenti da eroina stimati, solo 115.000 sono in trattamento. Il responsabile del Comitato ha detto: “Non conosciamo nessun’altra area della medicina in cui il governo federale interferisca così profondamente con la pratica medica. Se si eliminassero i livelli eccezionali di regolamentazione, molti più medici e farmacie potrebbero prescrivere o distribuire il metadone, rendendo il trattamento disponibile in molti più luoghi”.
Aumentare il numero dei tossicodipendenti in trattamento offrirebbe vantaggi non solo a loro ma anche alla popolazione in generale: il 75% dei casi di AIDS derivano infatti dall’uso promiscuo di droghe per endovena. Il rapporto sostiene che bisogna impegnare le forze federali e statali per informare correttamente i cittadini, e insegnare che la tossicodipendenza non è un problema etico, ma sanitario. Ci sono prove di una componente genetica, e di una sregolazione del sistema cerebrale della ricompensa, nella genesi della dipendenza. Le assicurazioni pubbliche e private dovrebbero sostenere i costi del trattamento (fonte: “Reuters”, 19 novembre 1997).
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Il 24 giugno 1998, in una lettera al “Wall Street Journal” l’ottantacinquenne premio Nobel per l’economia Milton Friedman, noto antiproibizionista, rispondendo a un critico che provocatoriamente chiedeva a tutti i “libertari” di dire se avevano o no fatto uso di droghe, scrive: “Non ne ho usate negli 85 anni passati, ma non posso garantire per il futuro”.
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L’eroina negli Stati Uniti è sempre più pura, e può arrivare persino al 95-97%, contro il 7% massimo di trent’anni fa. Grazie alla disponibilità, il costo dell’eroina è sempre più basso: a Boston, Massachusetts, una dose di eroina colombiana costa solo 4 dollari (ma nell’adiacente Vermont, 15$).
All’ingrosso, 1 kg di eroina costa sui 125-180.000 dollari (la cocaina costa fra 25.000 e 60.000 dollari al chilo). Attualmente, l’eroina è per il 60% di origine colombiana (fonte: “Reuters”, articolo in: “Wire”, 31 dicembre 1997). Quest’ultimo è un dato interessante per chi vuol valutare gli effetti pratici della “guerra alla droga”. Fino agli anni ’70, la maggior parte dell’eroina arrivava in America dalla Turchia tramite la famosa French Connection. Poi dal Sud Est asiatico e dal Messico. Oggi dalla Colombia. E domani? Forse dal Venezuela, forse addirittura dall’Africa occidentale.
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La Gran Bretagna e gli USA stanno finanziando in Uzbekistan un progetto di lotta biologica alle coltivazioni di papavero da oppio con una varietà geneticamente modificata del fungo Pleospora papaveracea, capace di attaccare le coltivazioni illegali. Sembra che finora i test sul campo abbiano dimostrato che il fungo attacca solo i papaveri (fonte: “The Sunday Times” di Londra del 28 giugno 1998, e altri, ma ne ha parlato anche il TG3).
Personalmente, faccio questa umile riflessione. L’ecologia non è una scienza esatta, e sappiamo pochissimo degli equilibri complessi, né abbiamo mezzi di prevedere la loro evoluzione di fronte a perturbazioni artificiali. Immettere nell’ambiente, in quantità assolutamente innaturali, agenti virulenti non selezionati dall’evoluzione ma modificati in laboratorio, anche se accuratamente sperimentati, può portare a sorprese terrificanti.
Nessuno può escludere che – agendo imprevedibilmente lungo le catene biologiche – l’invasione artificiale di un fungo maligno sui campi di papavero possa fare come il famoso battito delle ali di una farfalla in Cina che provoca un uragano nei Caraibi. Questo precedente, se portato a fondo, costituirà una minaccia gravissima per lo stesso futuro dell’umanità, se si pensa che l’alimentazione umana dipende totalmente da non più di una dozzina di piante coltivate.
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La Cannabis potrebbe proteggere il cervello dai danni di un ictus. Ricerche fatte presso il National Institute of Mental Health (NIMH) americano e pubblicate il 14 luglio 1998 sulla rivista “Proceedings of the National Academy of Sciences” dimostrerebbero che i cannabinoidi – in particolare il cannabidiolo (non psicoattivo) e il tetraidrocannabinolo (THC, il principale principio psicoattivo) interferiscono con la produzione di metaboliti tossici, tra cui il glutammato, che danneggiano le cellule cerebrali quando il flusso di sangue si arresta e quindi viene a mancare ossigeno (fonte: “The Independent” 19 luglio 1998, www.independent.co.uk)
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Il 10 luglio 1998, il presidente Clinton in persona ha lanciato la più grande campagna di propaganda antidroga mai realizzata sui mass media – compresa Internet – negli Stati Uniti. Costerà 1 miliardo di dollari in 5 anni (quasi 1800 miliardi di lire), valore che dovrebbe essere raddoppiato con i contributi in spazi gratuiti da parte di giornali e stazioni radio-TV. A fianco delle previste lodi delle associazioni più conservatrici, il programma ha ricevuto sulla stampa anche molte critiche, perché si basa sugli stessi messaggi terroristici e poco efficaci delle precedenti campagne (sul tipo di quelle precedenti, come le famose uova al tegamino con il messaggio “la droga ti frigge il cervello”, il cui principale risultato sembrano esser state grandi risate da parte degli adolescenti e il rifiuto delle uova da parte dei più piccini). Secondo i critici, i messaggi generici – dal famoso “Just say no” in poi – si dimostrano inefficaci per diversi motivi. Primo, perché i giovani, mentre si sentono ripetere che qualunque modalità di uso di droghe in qualunque quantità è dannoso, osservano continuamente l’uso di droghe legali (alcool, tabacco, psicofarmaci) da parte degli adulti. Secondo, perché questi messaggi sono confusi e non fanno distinzione fra sostanze molto diverse, come la marijuana, l’alcool o l’eroina, e quindi spingono i giovani – che con queste cose convivono tutti i giorni – a giudicare inattendibili e ipocriti i messaggi “educativi”. Terzo, i messaggi sono uguali per tutti, mentre dovrebbero essere correttamente indirizzati solo a quella minoranza di giovani che ha reali problemi con le droghe. I messaggi generici possono quindi essere addirittura dannosi, mettendo in contraddizione ciò che viene vissuto e ciò che viene detto. Inoltre, la loro, spesso palese, assurdità può di fatto spingere più persone a sperimentare con le droghe per capire come stanno davvero le cose. Secondo Ethan Nadelmann, l’inefficacia è dimostrata in primo luogo proprio dal fatto che i giovani che negli ultimi 10 anni sono stati bombardati da messaggi di questo tipo sono diventati i più grandi
sperimentatori di droghe.