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Da anni assistiamo a un fuoco di fila di dichiarazioni, da parte di politici e opinion makers, secondo cui la cannabis attualmente in circolazione avrebbe caratteristiche tali da non costituire più una «droga leggera» come era invece quella circolante negli anni ’70. Questa presunta «mutazione» viene attribuita alla presenza nella canapa di una maggiore concentrazione di Thc (il principale principio attivo), che oggi sarebbe aumentato fino a 20-30 volte rispetto al passato. Così, ad esempio, Antonio Maria Costa, direttore dell’agenzia Onu Unodc, scrive nella sua Prefazione al World Drug Report 2006:
«I trafficanti hanno investito fortemente per aumentare la potenza – e quindi la capacità di attrattiva sul mercato – della cannabis. Il risultato è devastante: oggi le caratteristiche della cannabis non sono più tanto diverse da quelle di altre droghe provenienti da piante, come la cocaina e l’eroina».
Simili preoccupazioni circolano anche in Italia. «Siamo di fronte a dati drammatici. È ormai evidente – ha dichiarato recentemente Giuliano Amato – che gli spinelli dei genitori di venti anni fa avevano molto meno principi attivi di quelli di oggi che possono devastare il cervello dei ragazzi».
Proprio in questi giorni è apparso in una rivista scientifica un articolo di un gruppo di ricercatori australiani, i quali hanno operato una revisione degli studi esistenti (Jennifer McLaren, Wendy Swift, Paul Dillon, Steve Allsop, 2008, «Cannabis potency and contamination: a review of the literature», Addiction 103 (7), 1100–1109).
Va detto subito che i ricercatori australiani riportano un recente rapporto dell’Osservatorio di Lisbona (Emcdda) secondo il quale la potenza della cannabis usata in Europa non è aumentata significativamente nel corso del tempo, con l’eccezione dell’Olanda, dove essa è prodotta quasi interamente con tecniche indoor. Viene anche citato uno studio italiano (Licata M., Verri P., Beduschi G., «Delta-9-Thc content in illicit cannabis products over the period 1997–2004 (first four months)». Ann Ist Super Sanità 2005; 41: 483–5), secondo il quale la potenza media della marijuana sequestrata sarebbe salita dal 2,5% nel 1997 al 15% nel 2004. La maggior parte dell’aumento, fanno però notare i ricercatori australiani, si è registrato tra il 2000 e il 2004, periodo in cui erano aumentati i sequestri dei boccioli. «È probabile – commentano i ricercatori australiani – che l’aumento della potenza si spieghi con questa modifica dei campioni, contenenti la parte più potente della pianta».
Il fatto che la concentrazione di Thc vari nelle diverse parti della pianta, e che dalle ricerche non sia sempre chiaro quale sia la parte analizzata, è solo uno dei problemi metodologici sottolineati nell’articolo di Addiction per quanto riguarda le varie ricerche prese in esame. Altri problemi riguardano il fatto che i campioni di canapa analizzati erano spesso di piccole dimensioni e quindi poco rappresentativi, nonché il modo in cui sono stati prelevati i campioni. In Olanda, ad esempio, è stato chiesto ai proprietari dei coffee-shops di fornire le varietà di canapa più popolari, perciò è «possibile che la maggiore potenza della marijuana olandese di produzione domestica rifletta in effetti dei cambiamenti nelle preferenze dei consumatori».
Un problema cruciale riguarda il fatto che non vi è omogeneità tra i campioni di marijuana reperiti in un dato periodo storico. «C’è una enorme variazione della potenza, in un dato anno, da campione a campione – scrivono gli autori dell’articolo. – Ad esempio, nel 1979 i campioni analizzati nel Regno Unito andavano dallo 0,2% al 17% di Thc. Così, i consumatori di cannabis potevano essere esposti a una maggiore variazione della potenza della canapa in un solo anno (a causa di questa variazione naturale della cannabis prodotta) che in anni o decenni».
Per quanto riguarda i rischi per la salute dei consumatori in relazione a una maggiore concentrazione di Thc, i ricercatori australiani sottolineano la necessità di studi che accertino anche la concentrazione di un altro principio attivo della cannabis, il cannabidiolo (Cbd), ritenuto dotato di effetti anti-psicotici e ansiolitici. Inoltre essi auspicano maggiori studi sulla tendenza dei consumatori a ridurre il proprio consumo quando la potenza della sostanza è maggiore. Come è noto infatti, quando la marijuana è più forte essi tendono a fumarne meno, così che i rischi polmonari risulterebbero addirittura ridotti. Questa osservazione è stata già autorevolmente proposta, tra gli altri, dall’Acmd (Advisory Council on the Misuse of Drugs), un organismo consultivo tecnico-scientifico del governo britannico. In suo recente rapporto (Cannabis: Classification and Public Health, Aprile 2008) l’Acmd afferma infatti che i consumatori adattano il comportamento alla concentrazione della sostanza e dunque «inalano solo una quantità di Thc sufficiente a ottenere un certo tipo di intossicazione».
In conclusione, scrivono i ricercatori australiani, «le evidenze risultano frammentate e piene di problemi metodologici. Comunque è chiaro che affermazioni su un aumento di 20 o 30 volte nella potenza della cannabis (…) non sono sostenute dalle evidenze».