Se raccontare è resistere, prendere posizione, mantenere viva la memoria collettiva, è tempo di agire e di ricordare Aldo Bianzino, 43 anni, ebanista, residente a Pietralunga, in Umbria: entrato in perfetto stato di salute nel carcere perugino di Capanne il 12 ottobre 2007 e trovato senza vita nella cella n. 20, sezione 2B il 14 ottobre 2007.
Il pm Petrazzini, sulla base della perizia autoptica (lacerazione traumatica del fegato per una lesione emorragica subpiale, ritenuta anch’essa di tipo traumatico) e dei risultati forniti, apre un procedimento per omicidio volontario ad opera di ignoti e un secondo fascicolo nei confronti di Gianluca Caldoro, assistente della penitenziaria, per omissione di soccorso e omissione di atti d’ufficio. Ma le ricerche si esauriscono con l’acquisizione dei filmati estratti dalle videocamere interne dell’istituto di pena e l’assunzione di sommarie informazioni da detenuti, agenti e personale sanitario dell’istituto.
Se raccontare è resistere, è tempo di resistere a indagini inquinate, manipolazioni d’informazione, istruttorie lacunose frutto di conflitti d’interesse (l’attività investigativa viene anche svolta da appartenenti alla polizia penitenziaria in servizio a Perugia), tentativi di insabbiamento, richieste di archiviazione perché «il fatto non sussiste». La morte, secondo la perizia medico-legale, è stata provocata dalla rottura di un aneurisma cerebrale: la lesione epatica definita «estranea all’evento letale», il decesso attribuito a cause naturali, escludendo l’esistenza di aggressioni nei confronti della vittima.
È tempo allora di ricostruire un percorso di dubbi e interrogativi non ancora sciolti, evidenziare tutte le contraddizioni del caso, disporre nuove linee di indagine sulla identificazione degli autori del trauma e ottenere verità e giustizia per Aldo.
La resistenza è azione, è inchiesta, è ricerca, come quella del medico legale dei familiari di Aldo, che nella sua perizia sostiene: «la lacerazione epatica deve essere ritenuta conseguenza di un valido trauma occorso in vita, non ascrivibile al massaggio cardiaco, in riferimento al quale vi è prova certa che avvenne a cuore fermo», ipotizzando l’omicidio volontario. L’esistenza di un nesso tra la lesione al fegato e la morte, quanto meno in termini di concausa, esclude che il trauma al fegato sia stato provocato da massaggio cardiaco o da altre cause, che comunque vengono negate anche dalla stessa relazione dei consulenti del Pubblico ministero.
In base a queste argomentazioni i familiari, il comitato e il pool di avvocati (Di Natale, Donati, Zaganelli) si sono opposti alla richiesta di archiviazione e il 17 ottobre sono stati ascoltati dal gip Massimo Ricciarelli all’udienza preliminare in cui sono stati evidenziati tutti gli elementi investigativi e le circostanze anomale da approfondire (la posizione del corpo sulla branda, l’essere nudo in periodo autunnale, il trasferimento del corpo fuori dalla cella e la sua deposizione davanti la porta chiusa dell’infermeria; le dichiarazioni dei testimoni, dei medici di turno, l’analisi dei filmati delle telecamere a circuito chiuso).
È tempo di reclamare l’iscrizione nel registro degli indagati del personale in servizio nella sezione del carcere di Capanne, di generare nuove forme di agire politico perché sia fatta giustizia per Aldo. Denunciare chi umilia le persone sotto custodia, chi infligge sofferenze fisiche e psichiche ai detenuti, chi uccide. Non permettere che motivazioni «assertive e generiche» possano innescare processi di oblio e costruire così impunità di comodo.
Patti Cirino