Non è detto che la pedofilia non ritorni in questa campagna elettorale, col suo seguito di «castrazione chimica» dei rei. Vale dunque la pena di cercare di ragionare seriamente su questo tema, come ha fatto Lorenzo D’Avack, vicepresidente del Comitato nazionale per la bioetica, sul Messaggero del 29 febbraio.
D’Avack ha giustamente richiamato gli argomenti con cui il Comitato per due volte, nel 1998 e nel 2003, ha valutato illeciti, sul piano etico e giuridico, i trattamenti definiti di castrazione chimica, su persone sia coatte che consenzienti. Ma poiché etica e giuridicità sembrano oggi valori «a geometria variabile» a seconda che si tratti di controllare il corpo femminile o di realizzare una sicurezza peraltro immaginaria, mi sembra utile ragionare sulle prove di efficacia della castrazione chimica, per evitare di avallare, anche indirettamente, l’idea che in questo campo l’etica e il diritto possano costituire ostacoli al dispiegarsi degli effetti positivi di ritrovati scientifici per i quali potrebbe valere la pena, chissà, di accrescere il già vasto ambito degli statuti d’eccezione, delle deroghe ai principi.
D’Avack riportava due osservazioni di un ricercatore autorevole, Silvio Garattini, secondo cui non vi è alcuna certezza che questo tipo di trattamenti possano avere effetti veramente disincentivanti sulla violenza sessuale. Garattini notava anche che questo problema nasce in una persona, non nei suoi livelli di testosterone. Questi sono i punti chiave sui quali politica e informazione dovrebbero discutere, esplicitando e motivando a quale scienza danno credito, di quale ricerca accettano le conclusioni.
Una parte della ricerca infatti, in questo come in altri campi, offre prove null’altro che sugli effetti, in parti del corpo e nel breve periodo, della somministrazione di sostanze chimiche. Nel caso concreto, si tratta dell’acetato di ciproterone, usato tra l’altro dai transessuali per ridurre i caratteri maschili del corpo. Che tale sostanza determini un blocco reversibile a livello del testosterone, cioè una sorta di «castrazione chimica», è evidente; cosa questo comporti sulla persona intera e nel corso del tempo viene taciuto da questo tipo di ricerca, anzi non viene proprio indagato.
Questo è il primo inganno che questa ricerca costruisce: effetti solo somatici e di breve periodo vengono «venduti» come risolutori di un problema complesso che, e questo è il secondo inganno, viene rappresentato come riducibile a una sua parte. In altre parole, un «pezzo» del corpo di una persona viene preso per il tutto, e i mutamenti di questo «pezzo» a seguito dell’uso di determinate sostanze vengono automaticamente estesi alla persona nel suo insieme, azzerando il peso, non di poco conto, della mente, dell’esperienza esistenziale e della condizione sociale. Salvo poi restare basiti quando si scopre, come è accaduto in Germania una ventina di anni fa, che un uomo castrato chirurgicamente aveva ucciso il bambino che cercava di violentare.
Quanto tale riduzionismo sia metodologicamente scorretto e quanto becera sia la visione dell’umano che ne emerge, è dimostrato da una mole enorme di ricerca scientifica in vari campi. Eppure, queste visioni semplificate fino alla caricatura hanno un successo politico-mediatico che può essere incomprensibile se non si tiene conto, da un lato, delle passioni che certi accadimenti mettono in moto, e dall’altro del fatto che la politica si riduce sempre più a comunicazione politica e la comunicazione ad amplificazione acritica di ogni inverificato comunicato stampa. Così riceviamo ciclicamente la notizia che è stato trovato il gene della schizofrenia, la pillola della felicità, la sostanza che cura i bambini-Pinocchio o quella che risolve la pedofilia, e si discute di questo con generico scandalo o infondato ottimismo, senza chiedere alla ricerca di mettere le carte in tavola, senza andare a cercare le sue credenziali. In questo modo, conoscenze pure importanti sulla materia di cui siamo fatti vengono derubricate al rango di semplici ricette per l’improbabile soluzione di problemi complessi, ed è una specie di campagna pubblicitaria continua in cui la scienza è la prima che ci perde, senza un pensiero critico che la interroghi e la sostenga.