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“Dammi anche due fiale di Narcan, le altre le ho usate ieri. Guarda, una scena assurda, da non credere!”. Mara, cliente dell’Unità di strada da sempre, di quelle metodiche, che ti portano le siringhe di una settimana ben impacchettate nel loro contenitore di plastica gialla e si riprendono quelle sterili per la settimana seguente, è fuori di sé. Il giorno prima stava entrando in farmacia e si vede un ragazzo accasciarsi proprio sulla porta. “Guarda, anche un cretino avrebbe capito che era un overdose: era blu in faccia, anzi no, era viola, rantolava, non rispondeva, non reagiva proprio. Ho urlato al farmacista: faccia presto, una siringa e una fiala di Narcan! Quello, niente, chiamo il 118, dice, io non posso intervenire. Ma come, faccio io, questo ci muore qua! Non sono autorizzato a intervenire, dice. Mi stavo proprio incazzando, e quello era sempre più blu. Sono schizzata alla macchina, ho preso il Narcan che ho sempre nel cruscotto, una siringa e via, gliel’ho piantata nel braccio, che meno male che era privo di conoscenza, se no gli facevo un male boia… Devo confessarti però che subito dopo sono scappata, tanto il 118 l’avevano già chiamato… Sai com’è, sono anche capaci di fermarti e di accusarti di qualche cosa…”. “Oh, ma che ci raccontate, qua?”, Tore, nuovo contatto, dotato di tutto il necessario per un “buco sicuro” solo una settimana fa, al primo incontro con il camper, ha l’aria un po’ incazzata e un po’ dubbiosa. “Sai che mi ha detto mio cugino infermiere? che se mi beccano che ho fatto un Narcan a uno che stava in over, mi denunciano e finisco anche in galera! ma siete proprio sicuri che lo posso fare?”. Ordinarie conversazioni di strada. Ordinarie contraddizioni tra servizi, pure dentro un medesimo sistema di cura e prevenzione. Ordinari conflitti – che purtroppo ancora si rovesciano sugli utenti, creando confusione – tra logiche diverse del fare prevenzione, e di fare proprio quella prevenzione che ha come posta in palio la vita. Prevenire le morti per overdose da eroina è una prassi che si è diffusa nel nostro Paese da poco tempo, legata per lo più al lavoro di strada. Illuminati esempi anticipatori esistevano da qualche tempo: alcuni Ser.T. che da anni hanno esposto in bella vista un cartello nelle sale d’attesa “Contro l’overdose, porta con te una fiala di Narcan. Chiedilo agli operatori”, e che magari sono anche stati messi sotto accusa quando la polizia ha trovato il farmaco addosso a un utente, come accaduto qualche tempo fa a un Ser.T. torinese. Ma sono eccezioni. È solo con l’esplicitarsi di teoria e prassi della limitazione del danno che interventi specifici e mirati alla prevenzione delle overdose diventano pratica quotidiana, esplicita. Fino ad allora, l’overdose era una specie di destino del tossicodipendente, una calamità oscura, spesso legata a giochi insondabili e immanenti come quelli del mercato nero o alla ineluttabilità della “droga che uccide”. Con il lavoro di strada, con i servizi a “bassa soglia”, e in generale con una accresciuta attenzione agli utenti che consumano attivamente e alla qualità della loro salute e della loro vita, si è tentato di uscire dal destino per entrare nel campo del possibile: prevenire, diminuire i rischi, aumentare consapevolezza e abilità, produrre cambiamento nei comportamenti e nelle abitudini più esposti, lavorare sulle dinamiche collettive. Informazione, colloqui individuali, materiali scritti e video, anche corsi di sopravvivenza e di pronto soccorso per persone tossicodipendenti: strumenti e interventi a disposizione ce ne sono, per promuovere la prevenzione. Su uno, però, ancora molto si discute, e proprio su quello che maggiormente potrebbe produrre significative modificazioni non solo nelle tragiche statistiche delle morti per eroina, ma anche nelle mentalità, negli atteggiamenti e nelle culture. Il naloxone (Narcan è il nome commerciale) è quella sostanza che, se iniettata per tempo, può salvare una vita. Il naloxone viene distribuito agli stessi tossicodipendenti, a tutt’oggi, da pochissime unità di strada: tutte le altre non lo fanno, chi per esplicito impedimento (è il caso delle unità operanti in Lombardia, dove la Regione, per insondabili motivi, ha esplicitamente vietato l’accesso al farmaco) chi per incertezza normativa (si può? non si può? qualcuno deve autorizzare?). Buone nuove giungono dalla Regione Emilia-Romagna, che sta generalizzando ciò che già l’Unità di strada della ASL di Faenza-Lugo-Ravenna fa, e dall’Osservatorio epidemiologico del Lazio, che sta studiando un programma ad hoc. Ma perché è così difficile scegliere di attuare una diffusa e capillare campagna di distribuzione di un farmaco salvavita? I motivi a sostegno non mancano, e sono più volte sottolineati dagli operatori di strada che hanno adottato questa via. Proviamo a elencarne alcuni. Primo: nella gran parte dei casi di overdose, la persona più vicina a chi sta male è un altro tossicodipendente. Questo vuol dire che la rete amicale è la più diffusa, la più capillare, la più presente, la più facilitata a intervenire. Se resa maggiormente abile e informata, è una potente risorsa. In secondo luogo, uno dei motivi più spesso addotti per giustificare la fuga o l’abbandono di una persona in overdose è la confusione, il panico, la paura di non saper cosa fare. Avere il farmaco in tasca, e averlo ricevuto da un operatore che accompagna sempre la distribuzione con accurate informazioni sul suo utilizzo, è tranquillizzante, crea abilità nell’intervenire, famigliarità con il farmaco; in una parola, contiene l’ansia e la paura dell’accadimento improvviso e traumatico. In terzo luogo, la fuga e l’abbandono dipendono anche dalla paura di essere fermati e individuati. In un territorio dove si distribuisce il Narcan si può ipotizzare che sia stato fatto un lavoro di informazione mirato alle forze dell’ordine, che dovrebbero risultare quindi consapevoli della legittima detenzione del farmaco, e pertanto meno orientate a reprimere persone che si siano prestate al soccorso. Gli atteggiamenti solidali difficilmente vengono promossi per invocazione ideologica; più facilmente i comportamenti divengono maggiormente solidali se il contesto li promuove, o quanto meno non li sanziona, e se il gruppo di pari, in primo luogo, e gli interlocutori “caldi” (quali potrebbero, dovrebbero essere gli operatori che lavorano al fianco dei tossicodipendenti), in secondo luogo, gratificano tali comportamenti. In quarto luogo, il naloxone è un farmaco “semplice”, che non ha gravi e facili controindicazioni: compromettere la salute di qualcuno iniettando naloxone è innegabilmente davvero difficile. Quinto, il Narcan è un farmaco da banco, cioè non è necessaria la ricetta del medico per acquistarlo. C’è tanto di circolare ministeriale datata 1987 che lo esplicita, anche se – e ci sarebbe da domandarsi perché – ancora molti farmacisti sostengono il contrario Sesto, i tossicodipendenti hanno una indiscussa abilità nelle pratiche iniettive, che rende poco probabili e rari errori gravi. In più, per evitare ulteriormente rischi, il farmaco va sempre accompagnato dalle corrette informazioni normative, con l’indicazione di iniettarlo intramuscolo. Settimo, il farmaco viene sempre distribuito unitamente all’indicazione chiara e netta di chiamare contemporaneamente il pronto soccorso, indicandolo come una cosa utile da fare per “prendere tempo” e non necessariamente risolutiva. Ma se tutto è così chiaro, allora perché Mara e Tore si sono trovati in situazioni confuse, bombardati da messaggi contraddittori? Per lo più ci si sente raccontare ragioni di tipo “tecnico”: mediche (è incauto far somministrare un farmaco a inesperti) o normativo (non è legale). Dietro la “tecnica” – normativa o medica – appare però difficile nascondersi: non si dovrebbe affidare l’insulina ai diabetici inesperti e non si potrebbe offrire un’aspirina (farmaco da banco) a un amico con il raffreddore. Difficile sostenerlo. I diabetici vengono opportunamente informati e abilitati, e nessuno si rifiuta di farlo, anche se forse una dose massiccia di insulina iniettata erroneamente a una persona che non ne avesse bisogno non farebbe certo un bell’effetto. E di aspirine ne possiamo acquistare quante ne vogliamo, e non c’è alcuna norma che preveda il reato di “cessione gratuita di aspirina”. Ve bene, e allora? Vengono in mente due considerazioni, in cui la tecnica smette di essere “neutra” e diventa, come si usa dire “politica”. La prima è di ordine generale: troppi ancora oggi pensano che la prevenzione sia appannaggio degli addetti ai lavori, o, detto in altri termini, che la salute sia delegabile a “tecnostrutture”. Che la prevenzione la fa il medico o l’infermiere (sì, e poi dove? quando? con che risorse?) e non che sia una cultura diffusa, un bagaglio che si articola per le mille culture della salute che popolano le nostre società, che sia “lavoro di comunità”, che viaggi meglio per canali tra pari, tra simili, dentro relazioni vive e informali, in ambiti non istituzionali, non preposti, non separati dalla vita. Perché la prevenzione – di tutto, dal cancro all’AIDS all’obesità all’ansia – ha a che fare con le cose della vita, le più quotidiane e le più personali, intime. E con le relazioni del quotidiano. E con le possibilità reali di fare quello e non quell’altro. Insomma, i saperi professionali sono utili, ma stanno sullo sfondo dei cambiamenti, in primo piano ci sono le culture (tante e diverse), le strategie individuali, le personali gerarchie rischi/benefici. Non c’è una razionalità scientifica che la sa lunga e una ottusità irrazionale che non sa, non pensa, non capisce. Ci sono diverse razionalità, e fare prevenzione vuol dire viaggiare dentro queste complicate e plurali mappe. Allora, non solo avere migliaia di tossicodipendenti muniti di naloxone e di abilità per usarlo è efficace sul piano “quantitativo”, ma è anche un “pezzo di comunità” che si dota della possibilità di autotutelarsi, e lo fa secondo propri codici di comportamento, viaggiando nella città secondo propri itinerari, chiamandosi e rispondendosi con propri linguaggi. Certo, meno delega alle “tecnostrutture” significa redistribuzione dei “poteri” verso la comunità: e qui siamo alla seconda osservazione. Quanti “tecnici” hanno voglia di sopportare questa redistribuzione? e di farlo sapendo che essa va “a favore” di persone tossicodipendenti? Insomma, quello che si delega a un diabetico si delegherebbe volentieri anche a un tossico? No. E i motivi non sono “tecnici”, sono di giudizio, pregiudizio e immaginario comune, sono la stigmatizzazione, il senso comune sul “tossico irresponsabile”. Insomma, tutte cose che fanno parte della comune percezione delle cose, che con “tecnica” e “scientificità” non ha proprio nulla a che fare.

* Coordinatrice Unità di strada Gruppo Abele-ASL 4, Torino

Attività dell’Unità di strada ASL 4 – Gruppo Abele – Torino

Salvataggi diretti overdose Fiale Narcan distribuite

1. semestre 9 335

2. semestre 53 1.020

3. semestre 91 1.780

4. semestre 31 1.612

5. semestre 40 2.172

Fonte: Gruppo Abele

Utenti dell’Unità di Strada e overdose

il 61% degli utenti ha avuto almeno una overdose

il 39,6% è stato aiutato da un altro tossicodipendente, il 12,5% dall’Unità di strada, il 27,1% da un passante;

l’85% è intervenuto in aiuto di un altro tossicodipendente;

il 98,8% sa cos’è il naloxone;

il 46,8% ha utilizzato naloxone su un altro tossicodipendente;

il 41,8% dei maschi e il 73,3% delle donne chiede naloxone all’Unità di strada.

Percezione soggettiva dei fattori di rischio

Motivazioni addotte per l’overdose (risposte date in ordine di importanza):

– minor tolleranza alla sostanza dopo periodi di astinenza (carcere, comunità)

– uso di eroina associato ad altre sostanze (benzodiazepine)

– fornitore diverso

– dose troppo elevata e iniettata tutta in una volta

– voglia di farla finita

Fonte: Progetto di ricerca Gruppo Abele – Istituto Superiore di Sanità, 1997 (100 interviste in profondità rivolte a utenti dell’Unità di strada)