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È sempre bene prendere le statistiche con beneficio d’inventario. Ricordate il grido di allarme lanciato la scorsa primavera dal Viminale su una presunta impennata dei reati? Occupò i media per giorni e fu messa in relazione con l’indulto, varato l’estate precedente (cfr. Fuoriluogo, maggio 2007). Sei mesi dopo, sugli stessi giornali qualche striminzito articolo ci ha informato − si fa per dire − invece di un calo dei delitti nel secondo semestre 2007. Una diminuzione vistosa se vista sul periodo più ampio: dal 1991 al 2006 gli omicidi volontari si sono ridotti di due terzi, passando da 3,3 a 1,1 per centomila abitanti; tanto che l’Italia, nonostante la peculiarità mafiosa, da questo punto di vista risulta, dopo la Norvegia, il Paese più sicuro d’Europa. I furti in abitazione sono passati da 3,6 a 2,4 per mille abitanti e gli scippi da 1,3 a 0,4. Unico dato in modesta crescita le rapine, da 0,7 a 0,9 per mille abitanti.
Si riducono dunque i delitti ma crescono, in maniera inversamente proporzionale, le paure. E, con esse, la necessità di trovare capri espiatori o, per dirla con Nils Christie, «suitable enemies», nemici convenienti su cui esercitare il rigore della tolleranza zero, in un rito di rassicurazione simbolica. Quale “nemico perfetto” migliore del consumatore di droghe, costretto alla illegalità e clandestinità?
Le ultime cifre diffuse dal ministero dell’Interno (“Analisi dei mutamenti del consumo tra le persone segnalate ai prefetti per detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti dal 1991 al 2006”, dicembre 2007) fotografano una vera e propria persecuzione di massa: dall’11 luglio 1990 al 31 dicembre 2006, 516.427 persone segnalate, in forza dell’art. 75 della legge del 1990, poi peggiorata dalla Fini-Giovanardi del 2006 (per la serie: non c’è limite al peggio, mentre il governo Prodi ha optato per la politica donabbondiana dello struzzo).
Oltre mezzo milione di segnalati, nel 93% dei casi maschi, nel 9% minorenni. Un dato ancor più impressionante se si considera che la prima sostanza di segnalazione è costituita dai cannabinoidi, quasi raddoppiata nel periodo in esame: dal 42,53% del 1991 al 73,99% del 2006. Viceversa, i segnalati per eroina sono stati, rispettivamente, il 50,52% e l’8,13%, quelli per cocaina il 5,17 e il 14,4%. Un bel risultato, considerato che, nel 1990, uno degli argomenti principe della svolta repressiva era stata la necessità di arginare le morti per droga. Come si sa, di cannabis non è mai morto nessuno (di carcere sì, come da ultimo Aldo Bianzino a Perugia). Eppure, in un’ottica inguaribilmente proibizionista, dopo le cifre anche i fatti possono essere stravolti. Così, il dato che le centinaia di migliaia di segnalazioni al Prefetto riguardano in stragrande maggioranza giovani consumatori occasionali di hashish o marijuana viene così commentato nel Rapporto: «Senza tale attività di prevenzione, sarebbero rimasti privi della rete di sostegno che a livello locale i Nuclei Operativi per le Tossicodipendenze in questi anni hanno contribuito a costruire». È facile immaginare che di tale attività “di sostegno” (che più che a una rete allude a una manetta) il mezzo milione di destinatari avrebbe fatto volentieri a meno, costituendo − va ricordato − il primo passaggio dell’iter sanzionatorio e forzatamente terapeutico, al cui fondo, in caso di reiterazione (e i plurisegnalati sono il 20%), scattano prima misure amministrative e poi quelle penali.
Sono passati 15 anni e diversi governi, sono state varate due leggi ad hoc, ma la logica è rimasta la stessa: ti controlliamo e ti puniamo per aiutarti e sostenerti. Più o meno la stessa filosofia che governava i gulag del Novecento.