Si può condensare il discorso con uno slogan: “Consumo di droghe: medicina ufficiale, se ci sei batti un colpo”. L’approccio odierno alle tossicodipendenze è infatti più simile a quello che si potrebbe definire un lager-pensiero, che orienta la “terapia” nei campi di rieducazione, o… di concentramento: invero distantissimo dalla medicina ufficiale e dallo stesso giuramento di Ippocrate, che sostanzia (o dovrebbe sostanziare) ogni intervento preventivo, terapeutico, riabilitativo del medico come di altri operatori socio-sanitari. Nel campo delle droghe, la medicina smarrisce se stessa quando confonde l’obbiettivo della cura con quello della correzione comportamentale del soggetto che assume sostanze. In questo senso, la riduzione del danno si pone come segnale di contraddizione rispetto al prevalente indirizzo “terapeutico-coercitivo” nel campo delle tossicodipendenze. Ma non è un caso che per indicare quello che dovrebbe essere l’approccio “normale” di cura, valido per tutti, compreso i consumatori di droga, si adotti invece un termine specifico, la riduzione del danno, appunto. Per certi versi, l’utente tossicodipendente riceve un trattamento più coattivo del paziente psichiatrico. È vero che in psichiatria si interviene (in casi estremi) in modo coattivo, ma non certo per “guarire”, bensì per evitare che il paziente si faccia del male o faccia del male ad altri. Si interviene, allora, nell’emergenza con farmaci o con altri presidî, che comunque, sulla base dell’attuale normativa sanitaria, devono lasciare il passo ad altri tipi di interventi. Utilizzando la terminologia consueta per le droghe, questi potrebbe definirsi interventi di riduzione del danno: caratterizzati da una serie molteplice e diversificata di prestazioni accessibili in forma non coattiva. È questa la “normalità” terapeutica che la legge sancisce anche per l’utente psichiatrico (ma non per il tossicodipendente). Ma vediamo più da vicino quali sono i princìpi dell’etica medica che guidano, o dovrebbero guidare, qualsiasi rapporto medico-paziente. Possiamo ispirarci ad alcuni passi significativi della “dichiarazione di Cos”, una sorta di riproposizione aggiornata del giuramento di Ippocrate, elaborata in un convegno internazionale, promosso da Medicina Democratica e tenuto in Grecia nell’ottobre 1992. Dice testualmente la dichiarazione: “Tutti noi, che con ruolo diversi lavoriamo al servizio della salute (…), ci impegniamo: 1) a non dimenticare mai che l’evoluzione della nostra scienza ci obbliga all’ascolto dell’altro (…) saremo a fianco del paziente, lo accompagneremo e concorderemo con lui le strategie di trattamento, facendo di tutto per non trovarci nella condizione di dover imporre misure terapeutiche; 2) a proporci come uno dei punti di riferimento per coloro che soffrono, senza eccezione alcuna, nel rispetto del loro modo di vivere, della loro cultura, delle loro credenze (…); 3) a chiedere l’accesso alle cure per tutti e a batterci per questo diritto (…). Come si vede si tratta di princìpi universali. Se non si applicano ai consumatori di droghe, è perché la logica della proibizione interferisce con la cura, snaturandone l’ispirazione etica. Tuttavia, è maturo il tempo per recuperare un approccio scientifico unitario al problema di tutte le droghe, legali o illegali che siano: per le persone che assumono bevande alcoliche o consumano tabacco o hashish, come altre droghe, devono valere i diritti come recitati nella dichiarazione di Cos, secondo i princìpi della medicina ufficiale. Proviamo allora, noi medici per primi, a rispondere ai seguenti interrogativi (attenzione, però: ci vuole un pizzico di onestà intellettuale e di coerenza, per svelare le incongruenze): alla persona diabetica, che interrompe o non segue correttamente una dieta, con la conseguenza di una crisi iperglicemica, il medico è tenuto comunque a prestare soccorso, evitandole il peggio? Pur sapendo che la persona ancora non ha deciso di seguire uno stile di vita sano?; alla persona già infartuata, cui è stato “prescritto” di non fumare, e che invero continua, il medico è tenuto a prestare soccorso nel caso di disturbi o recidiva infartuale, connessi all’abitudine del tabacco? Pur sapendo che la persona ancora non ha deciso di smettere di fumare e di seguire uno stile di vita sano?; alla persona ipertesa (con la pressione arteriosa alta), che continui a fumare e che pertanto presenti una crisi ipertensiva, il medico è tenuto a somministrare farmaci che la aiutino a normalizzare la pressione arteriosa? Pur sapendo che la persona non ha ancora deciso di smettere di fumare?; alla persona che soffre di ulcera gastrica, che continui a fumare, bere alcolici e mangiare cibi “vietati”, il medico è tenuto a prestare soccorso in caso di disturbi? Pur sapendo che la persona non seguirà uno stile di vita sano?; alla persona che si ammala di patologie infettive, sulla base di comportamenti a rischio, come ad esempio le infezioni a trasmissione sessuale, il medico è tenuto a prestare soccorso? Pur essendo in dubbio che la persona ripeta i comportamenti rischiosi? Potremmo andare avanti all’infinito, ognuno facendo riferimento alle proprie esperienze in materia di salute, sapendo che comunque il medico o altro operatore sanitario, mentre soccorre le persone nelle condizioni sopra descritte, consiglierà e rammenterà le indicazioni preventive, igienico-sanitarie, le regole comportamentali per uno stile di vita “sano” rivolte alla “guarigione”: ma si tratterà di consigli, non ordini. Allora: perché mai, nel caso delle persone cosiddette tossicodipendenti, dovremmo usare un approccio non “normale”, ovvero non orientato ai canoni e all’impostazione scientifica e deontologico-professionale usata nella medicina ufficiale? Il ribadire una diversa impostazione e un diverso approccio, oltre a rappresentare una palese discriminazione nei confronti dei “tossicodipendenti”, trova invero la sua motivazione unicamente sul versante emotivo, rispetto all’immaginario collettivo sulle droghe, specie se illegali. Che non è cambiato granché nei secoli (anche se, nei diversi periodi e presso i diversi popoli, differenti droghe sono state messe al bando). Lo testimonia una gustosa citazione da un opuscolo contro l’uso del tabacco, diffuso nel 1604 dal re d’Inghilterra Giacomo I: “il tabacco è la viva immagine e modello dell’inferno (…), vale a dire: primo è fumo, e tali sono le vanità di questo mondo. Secondo, delizia chi lo prende, e così i piaceri mondani deliziano l’uomo mondano. Terzo, inebria e svuota la testa, e così fanno le vanità del mondo di cui l’uomo si ubriaca. Quarto, colui che prende il tabacco dice di non poterlo lasciare, di essere stregato: e allo stesso modo i piaceri mondani fanno l’uomo restio a lasciarli, tanto ne è incantato. E, oltre a tutto questo, la sua materia prima è come l’inferno, perché è maleodorante e disgustosa, e così è l’inferno” (da Brian Inglis, “Il gioco proibito”).
Tonino D’Angelo, Presidente nazionale di Medicina Democratica