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Sono anni che parlo in dibattiti stanchi sui consumi giovanili di sostanze sostenendo che le curve degli stadi sono uno dei luoghi principali su cui chi si occupa del fenomeno droghe, a vario titolo, dovrebbe intervenire. Del resto abbiamo visto con i rave e con gli illegal parties come un certo tipo di vicinanza tra gli operatori e gli organizzatori di eventi abbia agito, almeno in alcuni contesti, da elemento di aumentata consapevolezza; anzi, a volte, nelle esperienze più interessanti, come siano stati i consumatori stessi ad organizzare interventi tra pari.
Questo processo non è stato liscio, si è prodotto negli anni con scambi e contaminazioni che hanno sedimentato esperienze. Mi chiedo però com’è che siamo riusciti in forme più o meno precarie a lavorare su questo versante, mentre abbiamo lasciato le curve al loro destino, senza produrre poco o niente di significativo al riguardo. Certo, soprattutto nelle curve metropolitane, dove oramai anche i gruppi di massa hanno modificato la propria struttura simbolica, i propri codici, verso appartenenze a clan che gestiscono zone di mercato, l’intervento diventa complicato. Ma non posso pensare che uno dei fenomeni giovanili più complessi e longevi del nostro paese venga categorizzato come un fenomeno da reprimere tout court, senza domandarsi minimamente se in qualche modo ci sia un’altra possibilità, che non la stigmatizzazione sociale dei “drogati”.
Partirei da qui allora per cercare di capire se sia possibile pensare a un intervento sociale che tenti in qualche modo di costruire un punto di vista non scontato, che tenti di volgere in positivo, attraverso la presa di voce dei soggetti, gli aspetti che in curva sono presenti: perseguendo una filosofia che molti di noi conoscono e che potremmo definire di riduzione del danno rispetto ai comportamenti legati alla violenza, o comunque a rischio.
Nel dibattito dopo la morte del povero Raciti non mi sono piaciuti né chi ha detto che le curve sono luoghi da chiudere, e nemmeno chi le ha analizzate come luoghi positivi senza approfondire gli elementi di critica necessari che attraversano questo mondo. Tutte e due le posizioni, in qualche modo, mi hanno dato una sensazione di lontananza rispetto al fenomeno reale, poiché ignorano che il vero punto del contendere si gioca oggi anche nella matrice simbolica che genera le identità.
Il centro dell’iniziativa dovrebbe essere allora giocato nella dimensione sociale dell’intervento, dentro le curve infatti non c’è uno stile, ma più stili che si fronteggiano. Costruire nelle città, come in alcune realtà dell’Italia già avviene, tessiture e contaminazioni tra i soggetti sociali che si addensano nella curva e le realtà associative per riconoscere le identità positive è secondo me il terreno su cui muoversi. Le unità di strada ad esempio avrebbero molto da offrire su questo, ampliando il loro concetto di educazione di strada, di mediazione sociale del conflitto, per favorire processi di protagonismo e di auto-organizzazione sociale. Che siano le palestre popolari, i raduni fra gruppi, le iniziative di solidarietà, questi sono i nuovi strumenti tutti ancora da sperimentare. Provarci però è quanto mai necessario.