Parlare oggi dei temi legati all’immigrazione è diventato difficile, più complesso di quanto lo fosse solo pochi anni fa. Questa difficoltà non è attribuibile ad un nuovo massiccio ed imprevisto ingresso di migranti, evento che non si è verificato, ma al fatto che il clima sociale e culturale è cambiato. Dell’integrazione parleremo, ma da subito va segnalato questo cambiamento che si respira nella vita sociale del nostro paese e nel resto dell’Europa. Tutte le persone portatrici di un disagio o che soffrono di una condizione di debolezza – dalle persone anziane ai disabili – potrebbero dire quanto il clima attorno a chi esprime una diversità, qualunque essa sia, sia divenuto freddo se non addirittura ostile.
Torniamo all’integrazione. Da una conversazione carpita in uno dei più famosi mercati rionali di Roma: Fatima, una bella donna somala e velata, va a fare la spesa come ogni giorno da un commerciante che la conosce molto bene, non si capisce cosa è successo ma qualcosa lo ha fatto arrabbiare molto. Il negoziante, infatti, sta inveendo animatamente contro tutti «’sti stranieri» che «se ne devono torna’ a casa loro» che «c’hanno rubato tutto, il lavoro e la casa e so’ pure aroganti». Durante una pausa dello sproloquio si inserisce Fatima: «ma anche io sono straniera!». Esitazione e sguardo pensoso del commerciante che risponde: «Ma no! Tu non sei straniera tu sei Fatima!».
Queste poche battute rubate da una scena di vita quotidiana sono rivelatrici di un paradosso che le nostre società stanno vivendo, e misurano la distanza tra quello che si pensa in maniera stereotipata e l’esperienza che pure ognuno fa nella vita di ogni giorno. Questo ci introduce al vero nodo dell’integrazione: per comprenderlo non bisogna solo guardare ai tanti Fatima, Alexandru, Irina, Bose, al tutto sommato piccolo e molto variegato popolo degli immigrati, ma la riflessione va spostata su di un piano culturale. È necessario, in altri termini, evidenziare una difficoltà di linguaggio, di chiavi interpretative, di conoscenza, di cultura insomma, che non riesce a leggere e dare parole ad un cambiamento positivo che pure già è avvenuto. Il negoziante del nostro esempio ha fatto una esperienza positiva dell’incontro con lo «straniero», Fatima, ma la sua consapevolezza è ferma ad una immagine non solo stereotipata ma alla fine non vera e inattuale della presenza straniera nei nostri paesi europei.
Anche i mass media, i responsabili istituzionali, le agenzie formative, non sembrano attrezzati a spiegare e a interpretare adeguatamente il fenomeno dell’immigrazione, di cui sono messi in luce solo gli aspetti problematici, emergenziali, ma di cui si ignorano persino i dati essenziali, come quelli statistici. Per citare solo un esempio di questo ritardo anche istituzionale basti dire che è del 2007 – solo da un anno! – la decisione di istituire un Fondo europeo per l’integrazione.
Per l’Europa e in particolare per l’Italia, è opportuno ricordarlo, l’immigrazione rappresenta una chance irrinunciabile e un sicuro arricchimento. Secondo le ultime proiezioni demografiche fornite dall’Istat, infatti, sono propri i flussi migratori che attenuano le ricadute negative dovute alla diminuzione della popolazione, permettendo di mantenere i livelli economico-sociali raggiunti, e con essi garantendo un livello di competitività e di crescita economica.
Eppure, lo afferma una ricerca dell’Eurobarometro del 2006, solo quattro cittadini europei su dieci sono disposti a riconoscere che «gli immigrati contribuiscono molto al bene del proprio paese». La sfida dell’integrazione nei suoi risvolti e contenuti culturali si pone in tutta la sua urgenza. Si tratta, allora, di trasmettere all’opinione pubblica un’immagine positiva della migrazione. Non è eticamente accettabile alimentare l’idea che siamo «invasi» e che alcuni gruppi di immigrati minacciano la sicurezza delle nostre società. Soprattutto non è vero e non si risolve il problema additando i «clandestini» o gli «zingari» come la causa di tutti i mali. È vero, ci sono degli stranieri che commettono reati, è grave ma la responsabilità penale è individuale e chi commette un crimine va perseguito. Ma questa è l’ordinaria gestione della legalità, non si può per questo criminalizzare un gruppo o una nazionalità.
È necessario oggi, per chi è investito di qualsivoglia responsabilità, non inseguire le paure, ma impegnarsi per far sì che la convivenza non sia subita, per giunta malvolentieri, ma diventi motivo di serena consapevolezza, di contentezza – si passi l’espressione – per tutti. Allora cosa fare? Forse si potrebbe iniziare parlando bene degli immigrati. Far sapere, ad esempio, che senza Fatima mia nonna sarebbe morta in un istituto; che sono tanti gli allevatori indiani che ci permettono di produrre un ottimo parmigiano reggiano, ed è grazie ai cuochi egiziani che manteniamo alto il buon nome della cucina italiana nel mondo. Si potrebbe continuare a lungo con i motivi per essere ben contenti di una presenza non minacciosa ma rassicurante e necessaria.
In conclusione, in questa nostra società l’emergenza è di ben altra natura e investe i valori umani e sociali di fondo di accoglienza e di solidarietà. Sono davanti ai nostri occhi le terribili immagini dei profughi attaccati disperatamente alle tonnare dei pescatori siciliani. C’è bisogno di un sussulto delle coscienze come è stato recentemente ribadito in occasione della Preghiera ecumenica in memoria delle vittime dei viaggi verso l’Europa convocata a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio e da altre associazioni cristiane e presieduta dal Cardinal Renato Martino. Un appello letto in questa occasione conteneva una sfida che va raccolta, guardando uomini, donne e bambini che fuggono dalla fame, dalla guerra, dalle catastrofi e soprattutto fuggono dalla disperazione: «Ci impegniamo a mantenere vivo nella nostra società uno spazio di umanità dove si possa riconoscere e accogliere questi uomini e queste donne come fratelli e sorelle».
*Comunità di Sant’Egidio