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Ormai da diversi anni le relazioni annuali governative al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze ci restituiscono la stessa desolante fotografia del carcere: i tossicodipendenti costituiscono circa il 30% della popolazione carceraria, detenuti in massima parte in violazione della cosiddetta legge antidroga. Alla conferenza sulle droghe di Napoli si era parlato di depenalizzazione completa del consumo di droghe e di "decarcerizzazione": già questo orrendo e ambiguo neologismo è la spia di un dibattito angusto su tossicodipendenza e carcere, chiuso fra gli addetti ai lavori, non esente da tentazioni di scorciatoie tecnicistiche.

Se è forte la resistenza a discutere sui costi sociali dell’impianto repressivo della legge – si pensi solo agli alti livelli delle pene -, altrettanto si può dire per quelle norme della stessa legge che già consentono la cosiddetta decarcerizzazione dei detenuti tossicodipendenti, con pene inferiori ai quattro anni, che vogliano intraprendere un percorso terapeutico. La terapia alternativa al carcere già era stata sancita dalla legge Jervolino-Vassalli, seguendo una logica di "coercizione terapeutica" perfettamente congeniale all’ispirazione punitiva della stessa. Pochi anni dopo, l’allora ministro Martelli, nell’emanare il decreto che innalzava il limite di pena (da tre a quattro anni) per l’affidamento in prova per tossicodipendenti detenuti, dichiarò che il provvedimento avrebbe drasticamente ridotto la presenza di questi soggetti in carcere. Così non è stato. Eppure, oggi, alcune proposte di legge depositate in Parlamento, e la stessa commissione di studio governativa, suggeriscono di ripercorrere la stessa strada, elevando ancora il limite di pena che consenta l’alternativa terapeutica.

Il desiderio di "fare" è quasi sempre lodevole. A meno che non sia la spia dell’incapacità o della non volontà di "capire", di appropriarsi del significato di ciò che si sta facendo. Forse proprio questo è il nostro caso. Abbiamo scelto di discuterne con due responsabili di servizi, che hanno larga esperienza dell’attuale "decarcerizzazione": Massimo Barra che dirige "Villa Maraini" a Roma, e don Andrea Gallo, responsabile delle comunità di San Benedetto al porto di Genova.

PARLA ANDREA GALLO:
FARE LA GUERRA ALL’INTOLLERANZA

Parliamo dei tossicodipendenti, che da anni costituiscono una grossa fetta della popolazione carceraria. L’affidamento in prova speciale, che permette percorsi terapeutici alternativi al carcere è la via che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto ridurre, se non eliminare, la carcerazione dei tossicodipendenti. Qual è la vostra esperienza?

Va detto in premessa che è un sistema totalmente ipocrita: da un lato, si proclama la necessità di far uscire i tossicodipendenti dal carcere, dall’altro, si verificano casi in cui finiscono dietro le sbarre anche semplici consumatori. Ho seguito di recente il caso di un ragazzo che per tre grammi di principio attivo di eroina ha avuto sei anni di condanna, e non era certo uno spacciatore. Poco tempo fa c’è stato un epilogo tragico nel penitenziario di Pontedecimo: una tossicodipendente si è impiccata. Questa donna aveva solo un mese da scontare, ma evidentemente la situazione era intollerabile..

Avete molte richieste per entrare in comunità con l’affidamento in prova per tossicodipendenti?

Certamente. La domanda è molto frequente, specie di soggetti che hanno da scontare sei mesi, un anno, pene brevi insomma. Ormai la gran parte dei nostri residenti in comunità proviene dal carcere, mentre sono diminuiti di molto gli ingressi di chi non ha pendenze penali. Questi ultimi preferiscono i programmi coi servizi pubblici, oppure vanno ad alimentare il cosiddetto sommerso. È un segno che i tempi sono cambiati.

Siete d’accordo con la proposta di permettere l’affido per programmi terapeutici anche con pene superiori ai quattro anni? Sembra che il governo stia lavorando per innalzare il limite a sei anni.

Ma non c’è solo il problema di ampliare le possibilità per questo tipo di affidamento! Questi percorsi terapeutici in alternativa al carcere sono molto difficili e sono frequenti le ricadute. Le regole che i giudici stabiliscono sono rigide e creano difficoltà sia agli affidati che alla comunità nel suo complesso. I ragazzi in affido devono essere sempre accompagnati se escono dalla comunità, anche per andare dal dentista. Il nostro programma prevede molti momenti di socialità anche fuori dalla comunità, per esempio feste come quella del 1° maggio che adesso stiamo preparando. Chi è in affidamento per parteciparvi deve avere il permesso del magistrato, che magari non arriva: così il ragazzo si sente escluso e frustrato e il suo nervosismo è motivo di turbamento per tutti. Per di più, se l’affidamento fallisce, il soggetto rientra in carcere e non gli viene scalato dalla pena neppure il periodo trascorso in comunità.

Quali soluzioni suggerisci?

Attualmente c’è un’enorme differenza, un fossato direi, tra l’affidamento in prova speciale per tossicodipendenti (il 47 bis) e quello ordinario. Quest’ultimo prevede programmi sul territorio, con inserimento lavorativo, che in genere sono preclusi ai tossicodipendenti affidati col 47 bis. È una logica sbagliata. Al contrario, bisognerebbe creare incentivi per gli artigiani e le piccole aziende disposte ad assumere un tossicodipendente in affido. Oggi, invece, i giudici concedono l’affidamento ai servizi sociali solo se il condannato si è procurato un contratto regolare di assunzione. Con la disoccupazione così diffusa è impossibile a chi è in condizioni di marginalità sociale trovare un posto di lavoro!

Vuoi dire che i magistrati preferiscono affidare i tossicodipendenti alle comunità terapeutiche perché rispondono meglio di altri programmi a esigenze di custodia?

Certamente. Ti faccio un esempio. Dallo scorso settembre abbiamo accolto in una delle nostre comunità uno degli imputati per l’omicidio del cavalcavia di Tortona (abbiamo fatto un’eccezione, perché in genere non accogliamo soggetti agli arresti, ci sono troppi vincoli). Abbiamo chiesto al giudice che il ragazzo potesse partecipare alla festa della vendemmia. Non gli è stato concesso, anche se l’aia dove si svolgeva la festa si trova a poche centinaia di metri dalla comunità. Pare che il problema fosse rappresentato dall’attraversamento di una strada provinciale. Questa è una vecchia via, ancora in terra battuta, ormai poco utilizzata, ma si è rivelata un ostacolo (mentale, più che materiale) insormontabile!

Non c’è il rischio che la presenza di un così gran numero di soggetti in affidamento "speciale" trasformi le vostre comunità in piccoli carceri?

No, perché dopo un certo tempo (sei mesi, un anno) se il ragazzo ha iniziato un percorso soddisfacente, cerchiamo di fargli avere l’affidamento ordinario ai servizi sociali: aiutandolo a trovare lavoro, a inserirsi sul territorio, mentre noi continuiamo a garantirgli un supporto. Certo, i problemi esistono, perché la rete dei servizi è ancora insufficiente e i SERT a Genova funzionano con un terzo del personale che dovrebbero avere.

Che cosa si può fare per evitare che i tossicodipendenti entrino in carcere?

Riprendo lo slogan con cui Forum Droghe ha lanciato la campagna per la legalizzazione delle droghe leggere e la depenalizzazione completa del consumo per tutte le droghe: ricominciamo da due! Sono proposte giuste, per una cultura "umana", di difesa dei diritti dei cittadini tossicodipendenti. Basta con la guerra alla droga, sostituiamola con la guerra all’intolleranza.

PARLA MASSIMO BARRA:
EQUILIBRIO TRA CONNIVENZA E COERCIZIONE

Parliamo di tossicodipendenza e carcere. Alla Conferenza di Napoli di un anno fa si era parlato di ridurre il carcere. Che ne è stato di queste proposte?

Non mi sembra che sia stato dato molto seguito alle proposte avanzate a Napoli, eppure era un’assise importante che avrebbe meritato attenzione. Comunque, una delle linee di riforma potrebbe essere l’eliminazione del limite di quattro anni di pena , al di sopra del quale attualmente il tossicodipendente detenuto non può richiedere l’affidamento in prova.

Ma la via dell’ampliamento delle possibilità di affidamento in prova speciale non è nuova. Già nel 1993 l’allora ministro Martelli aveva innalzato la soglia da tre a quattro anni, eppure il numero di tossicodipendenti in carcere non è diminuito. Non dimentichiamo, poi, che la gran parte degli ingressi in carcere avviene per reati di spaccio, che è punito con pene molto alte, senza contare che anche la semplice cessione è equiparata allo spaccio. Non c’è un’incongruenza fra una legge molto penalizzante, che con grande facilità apre le porte del carcere ai tossicodipendenti, e la presenza di canali "speciali" per favorirne l’uscita?

Su queste problematiche bisogna andare per gradi, tenendo conto della reattività dell’opinione pubblica. Vi cito un caso, a partire dalla mia esperienza: il primo dicembre scorso avevo inviato a un convegno a Palermo un nostro collaboratore, che la sera si è ritrovato all’Ucciardone. Dal cervellone della polizia, questa persona risultava contumace (senza che egli ne sapesse niente) per una condanna passata in giudicato, in seguito a un reato di bancarotta fraudolenta commesso molti anni prima, quando era tossicodipendente. Dopo cinque anni che non si drogava più, quest’uomo è rientrato in carcere. Possono essere eventi drammatici… Per fortuna, in questo caso, la condanna era di quattro anni e due mesi, perciò, dopo aver scontato i due mesi, ha potuto ottenere l’affidamento in prova. Ciò dimostra che ci vuole elasticità in queste situazioni.

Basta dunque assicurare l’uscita dal carcere ai tossicodipendenti , ovvero "decarcerizzare", come si dice in gergo tecnico?

No, si deve meglio definire il reato di spaccio, cominciando a distinguere fra cessione e spaccio. Quanto a quest’ultimo, l’elemento costitutivo del reato dovrebbe essere il lucro permanente. Se, invece, il lucro è finalizzato all’acquisto delle sostanze per sé, allora in questo caso il tossicodipendente fa agli altri ciò che gli altri fanno a lui. C’è un elemento soggettivo del reato completamente diverso. Per di più, il criterio che identifica lo spaccio dalla quantità di sostanza detenuta è assolutamente banale e improprio. So di persone che hanno importato grosse quantità di droga, cocaina nello specifico, e l’hanno consumata tutta personalmente.

Torniamo all’affidamento in prova. Non pensa che ci sia anche un problema di cultura dei giudici nell’applicare la norma? La legge, di per sé, non preclude la possibilità che il tossicodipendente sia affidato ai servizi pubblici, con programmi di reinserimento sociale sul territorio. Eppure, i magistrati di sorveglianza in genere preferiscono i programmi residenziali in comunità. E, poi, magari basta un esame positivo delle urine che provi una "ricaduta" per tornare in carcere…

Si sovrappongono molti problemi. L’affidamento in prova dovrebbe essere una presa in carico globale del soggetto. Spesso i servizi pubblici non sono in grado di adempiere questo compito e fanno solo terapie farmacologiche ed esami delle urine: è un po’ poco. Esperienze come la nostra, di Villa Maraini, in cui l’aspetto sanitario e il momento ergoterapico e psicoterapico sono compresenti, mi sembrano preferibili. D’altro lato, l’interesse terapeutico del tossicodipendente non è definibile a priori. Spesso scatta un rapporto di complicità fra chi cura e chi è curato, seguendo il principio "io ti copro qualsiasi cosa tu faccia", e ciò determina reazioni da parte della magistratura. Il rischio di connivenza fra affidato e affidatario è aggravato se quest’ultimo vive della rendita che gli procura il tossicodipendente. Il sistema delle rette pagate al privato sociale per ogni singola prestazione fornita non funziona, particolarmente in questi casi. A volte può essere utile anche il rientro in carcere, perché il tossicodipendente rifletta un po’ su di sé.

Ma la logica della terapia alternativa al carcere non determina di per sé una pericolosa commistione fra sistema terapeutico e sistema giudiziario? C’è, fra l’altro, un elemento di coercizione che turba il setting terapeutico…

È vero, però si può lavorare per un diverso rapporto con la magistratura, di contatto quotidiano, che non sia burocratico, per valorizzare la terapeuticità dell’affidamento in prova: cercando di creare un sistema che non sia di contaminazione reciproca. Non dimentichiamo che l’anello più debole è sempre il tossicodipendente, che ci rimette sia da un rapporto di connivenza dettato dalla convenienza e dall’utilitarismo del terapeuta, sia da un atteggiamento troppo fiscale: bisogna trovare uno spazio genuinamente terapeutico fra questi due estremi. La coercizione è certamente una forte contaminazione, ma non mi sentirei di escluderla in assoluto. Nel caso di tossicodipendenti allo sbando, incapace di provvedere a se stessi, la costrizione può essere utile.

Tuttavia la strada maestra sarebbe ancora quella di evitare che il tossicodipendente commetta reati ed entri in carcere. Il sistema dei servizi, e in particolare la riduzione del danno, dovrebbero contribuire a contenere i rischi della clandestinità e la microcriminalità…

C’è molto da fare per diffondere una diversa cultura dei servizi. Ci sono ancora SERT che non sono in grado o non vogliono dare metadone e frappongono ostacoli artificiosi a questo approccio. Quando un tossicodipendente è allo sbando e non gli viene dato il metadone continua a delinquere. Se il metadone viene negato, o è dato poco e male, si determina un danno iatrogeno. Questa è la situazione in molte Regioni italiane ed è così anche a Roma. Anzi, a Roma c’è una suddivisione territoriale che impone al tossicodipendente di recarsi ad un determinato servizio: col rischio che sia obbligato a curarsi in un servizio inefficiente, perché ciò che è lecito a Montemario diventa illecito a Montesacro. Si viola così il diritto costituzionale alla cura.

L’esperienza della somministrazione controllata di eroina in Svizzera ha dato risultati positivi soprattutto rispetto all’inserimento sociale dei tossicodipendenti e alla riduzione della criminalità. Potrebbe essere utile questa sperimentazione anche in Italia?

Noi di Villa Maraini abbiamo dichiarato subito la nostra disponibilità alla sperimentazione, anche perché eravamo terrorizzati dal rischio che somministrassero l’eroina quei SERT che oggi non sanno dare il metadone! Nei casi in cui il metadone si rivela inadeguato, ci può essere spazio per tentare una terapia con eroina.

Anche in Svizzera la sperimentazione si è rivolta a quei soggetti che avevano fallito con altri programmi…

Si può giustificare la sperimentazione dell’eroina come farmaco partendo dall’assunto che non conti tanto la sostanza in sé, quanto il contesto di assunzione. Ciò è confermato anche dalle sperimentazioni su animali. È ipotizzabile che l’eroina medicalizzata sia diversa dall’eroina di strada e che, nel primo caso, la prognosi sia favorevole e il tossicodipendente cerchi altre strade. Noi, comunque, siamo pronti a sperimentare, ma ho i miei dubbi che ci sia la volontà politica di farlo!