L’idea-cardine su cui è imperniato l’intero testo di legge approvato dalGoverno per ri-regolamentare la cura degli stati di tossicodipendenza, è la convinzione che l’unico trattamento efficace sia la comunità terapeutica. Qualsiasi altro intervento è considerato vano, se non controproducente. I programmi di cura territoriali non sono riconosciuti nella loro autonomia e nella loro dignità scientifica e morale, ma sono considerati solo come propedeutici o di “coronamento” dell’intervento di comunità a cui viene subordinato l’intero sistema dei servizi. Il loro
compito principale viene ridotto a convincere e
preparare la persona tossicodipendente ad affrontare il percorso di comunità. Rispetto a questo obiettivo, a rinforzo degli strumenti pedagogici, viene mobilitato tutto il sistema sanzionatorio e penale. Le misure amministrative derivanti dal semplice possesso per uso personale, come le sanzioni penali conseguenti alla detenzione di una dose anche se di poco superiore alla massima giornaliera consentita per decreto, convergono tutte nell’indurre la persona tossicodipendente, in alternativa al peggio, a scegliere il trattamento in comunità terapeutica.
Una simile impostazione è semplicistica, antistorica ed autoritaria. È semplicistica in quanto ignora ogni differenza, proponendo un’unica risposta terapeutica, la comunità, come se di per sé fosse valida per qualsiasi situazione, indipendentemente dal tipo di droghe utilizzate, dalle singole storie e caratteristiche di ogni persona, dalla varietà di fasi che scandiscono lo stato di tossicodipendenza.
L’enfatizzazione del concetto della nocività totale di tutte le sostanze stupefacenti e della loro assoluta indistinzione, di cui l’equiparazione della cannabis all’eroina in un’unica tabella ne è l’emblema, costituisce il punto di partenza della linearità semplicistica del ragionamento: un unico demone, la droga; un’unica vittima-complice, la persona tossicodipendente; un’unica terapia, la comunità. Tutte le evidenze scientifiche sono accantonate, tutte le buone prassi, faticosamente definite nel corso di tutti questi anni, azzerate.
Che serve ribadire che le comunità rimangono uno strumento importantissimo nello scenario della riabilitazione, ma che non ne sono l’unico?
Che la loro efficacia è stimabilissima, ma relativa, e che aumenta nella stretta integrazione con gli altri trattamenti? Che serve richiamare l’attenzione che le comunità sono uno strumento necessariamente selettivo (solo una persona tossicodipendente su otto, che tenta un percorso residenziale, riporta un successo permanente dal trattamento), e che proprio nella selezione dovuta alla “durezza” del programma sta la forza di quel tipo di riabilitazione? Che serve rimarcare che, nel frattempo, gli altri 160.000 eroinomani non debbano essere abbandonati al loro destino, ma vada con loro pazientemente e faticosamente cercato il miglior aiuto possibile? Che serve sottolineare inoltre che i trattamenti in comunità agli arresti domiciliari, dove si abbina coattività della pena e terapia, appaiono come i più inefficaci e fallimentari? Il disegno di legge del Governo non vuole tenere in conto gli insegnamenti dell’esperienza passata. Tende a riproporre meccanicamente, rafforzati dagli elementi di coercizione legislativa, i percorsi ampiamente praticati negli anni ’80 e nella prima metà dei ‘90, caratterizzati dall’egemonia dei trattamenti di comunità, che allora apparivano come la “soluzione” alla problematica della dipendenza. Fu un’epoca in cui ci si illuse in molti, operatori, terapeuti, familiari, amministratori e le stesse persone tossicodipendenti, di aver finalmente trovato la risposta adeguata. A seguito della espansione della domanda si moltiplicarono le strutture residenziali; alcune dilatarono le loro capacità di accoglienza fino ad ospitare un centinaio di persone ed oltre, finendo per rassomigliare molto di più ad un collegio che ad una comunità riabilitativa, in cui il primato educativo non poteva che essere demandato alla regola ed al suo rispetto anziché alla relazione ed alla sua declinazione individualizzata. Per convincere, con le buone o con le cattive, ad intraprendere il percorso di comunità, fu coniata, ampiamente suggerita ai familiari, molto diffusa e praticata, l’indicazione “pedagogica” di “far toccare il fondo”, quale prescrizione invariabile per qualsiasi situazione di dipendenza, col risultato che quelli furono gli anni a più alta mortalità sia per overdose che per malattie drogacorrelate. L’illusione di aver trovato la soluzione del problema con i trattamenti di comunità ed il furore pedagogico di stampo fondamentalista che la sostenne portò a sottovalutare la portata distruttiva dell’Aids nell’innesto sulla tossicodipendenza. Chi allora si spese per la disponibilità di siringhe sterili per le persone che usavano droga per via endovenosa veniva stigmatizzato come complice ed istigatore della loro tossicodipendenza. L’esperienza di quei 15 anni ha indicato strade alternative e complementari, ha messo in evidenza degli errori.
È dall’elaborazione del passato che bisogna ripartire, non dalla riproposizione meccanica e stereotipata di quelle stesse indicazioni. Il finto solidarismo di cui il disegno di legge vuole ammantarsi tradisce in realtà un approccio autoritario. Da una parte tende a favorire le persone tossicodipendenti rispetto agli altri detenuti, perché “vittime” della droga, dall’altra propone loro di fatto un unico tipo di trattamento e trasforma le comunità in mini-carceri. Inoltre se un detenuto non ce la fa a sostenere il percorso terapeutico perde qualsiasi beneficio rispetto alla pena e sconta una condanna in carcere tra le più alte d’Europa. L’alternativa al carcere con gli arresti domiciliari in comunità impone una logica di “meno peggio” che non è portatrice di una reale motivazione al percorso che, per chi lo intraprende volontariamente da una situazione di libertà, è caratterizzato dalla fatica di poterlo riscegliere giorno per giorno, rinunciando a tutto pur di conseguire l’obiettivo di emancipazione dalla dipendenza. Ed in ciò si colloca la chiave della sua terapeuticità. Nel progetto di legge l’illusione repressiva si coniuga col solidarismo autoritario, sintetizzabile in una mentalità che si esprime più o meno nei termini seguenti: «Io so che cosa è bene per te, tu ora non sei in condizioni per apprezzarlo, per cui decido io per te, poi mi ringrazierai».