Sono meno di cinquecento coloro che hanno lasciato le nostre galere grazie alla Simeone-Saraceni, la cosiddetta “legge svuotacarceri”. L’unica cosa che si è svuotata dopo questo bluff è il serbatoio di aspettative che sostiene coloro che frequentano le nostre prigioni. Non mostra, invece, alcun segno di cedimento quell’insostenibile pesantezza del carcerario che è da lungo tempo sotto i nostri occhi, prodotto di una evidente impermeabilità della penalità materiale agli interventi riformisti che cercano di governarne l’andamento. Di fronte a questo fallimento, è necessario mettere in discussione alcune letture di questa situazione, perché è forse in qualche luogo comune l’origine degli equivoci in cui cade il riformismo penitenziario italiano.
TUTTO COMINCIÒ CON CRAXI
Il primo assunto che metterei in discussione è quello che individua nell’alto numero dei detenuti un’emergenza transitoria, destinata prima o poi a normalizzarsi.
Nel 1990 le nostre carceri ospitavano 26.000 detenuti. Si incarceravano 56 persone ogni 100.000 abitanti, mentre in Francia questo valore era di 84, in Inghilterra di 92 e negli USA di 504. All’inizio del 1992 la popolazione delle nostre prigioni si assestava già sulle 50.000 unità e da allora non si è più mossa da lì. A questi vanno aggiunti i 25.000 che attualmente eseguono le loro condanne fuori dal carcere e che portano la massa di coloro che ruotano intorno al penitenziario al triplo di quella del 1990. L’enormità di questo dato è espressione di una nuova normalità che stentiamo a riconoscere. Una crisi che si protrae per 8-10 anni nasconde, probabilmente, un nuovo equilibrio. A sostegno di questa considerazione propongo tre argomenti:
1) L’aumento delle carcerazioni è frutto di una crescita di produttività del sistema penale nel suo complesso. Non soltanto si arresta di più (90.000 ingressi l’anno), ma si condanna anche molto di più (28.000 definitivi dentro le carceri e 25.000 in esecuzione penale esterna). Il sistema della repressione è cresciuto in efficienza sia sul versante degli apparati di polizia che nell’attività giudicante. E questo è un primo fattore di stabilizzazione, nel senso che non vedo per quali ragioni questa accresciuta capacità operativa dovrebbe diminuire di fronte alle emergenze criminali di cui vive questo Paese.
2) Molti ritengono che l’avvio della crescita delle carcerazioni in Italia sia da ricondurre alle emergenze criminali che hanno segnato l’inizio di questo decennio: Tangentopoli e la strategia stragista inaugurata dalla mafia nel 1991. Io, piuttosto, daterei questa radicale inversione di rotta al 1990, quando entra in vigore la nuova normativa sulle tossicodipendenze voluta da Craxi. È a partire da quella legge che si avvia il trend di crescita delle carcerazioni.
Quando tra il 1991 e il 1992 decolla l’inchiesta di Mani Pulite e scoppiano le bombe di Capaci e di Via D’Amelio, il nostro Paese è già nel pieno di una grande ondata punitiva, determinata dal brusco innalzamento della soglia di legalità che la campagna punitiva sul consumo degli stupefacenti aveva prodotto. Una buona parte degli ingressi in carcere in questi anni è da ricondurre a questa legge. Ora, io non vedo all’orizzonte alcuna tendenza all’inversione degli orientamenti proibizionisti nel campo delle politiche sulle tossicodipendenze. Anche se i dati dimostrano chiaramente gli effetti criminogeni che queste legislazioni hanno prodotto, è difficile combattere un “credo” con argomentazione plausibili.
3) Ma l’elemento più interessante della svolta alla lotta alle tossicodipendenze voluta da Craxi fu l’operazione politica che preparò l’intervento legislativo. Al passaggio parlamentare si arrivò dopo una vera e propria crociata moralizzatrice. Ciò che interessava era il messaggio d’ordine che la legge trasmetteva. La martellante campagna di allarme costruì una nuova “classe pericolosa”, i tossicodipendenti, verso cui dirigere l’attenzione di un’opinione pubblica sempre più impaurita e insicura.
Questa vicenda inaugura un nuovo rapporto tra politica e giustizia. All’ombra di due grandi emergenze criminali si è consumato il più spettacolare processo di incarcerazione che questo Paese ha vissuto negli ultimi 50 anni, consolidando modelli di risposta alla crisi sociale in cui l’uso della penalità ha assunto un ruolo preminente. A pagare il tributo più pesante sono state le vecchie e nuove aree sociali della marginalità e del disagio, alimentate dagli indirizzi neoliberisti delle politiche economiche di questi anni. In questo momento non sono più di 7000 gli appartenenti al crimine organizzato incarcerati; i tangentisti poi si contano sulle dita di una mano. La costruzione mediatica delle figure criminali del tangentista e del mafioso ha nascosto una penalità materiale che ha colpito pesantemente una specifica area sociale della marginalità, che è quella prevalentemente insediata nei contesti metropolitani, che occupa le fasce più precarie e deboli del mercato del lavoro criminale, che nelle sue scelte di criminalità riproduce semplicemente la sua posizione sociale di partenza.
Non credo di essere in errore, se dico di non vedere nelle politiche economiche e sociali di questi anni nessuna credibile prospettiva di contenimento di questi processi di disgregazione sociale. Anzi, gli scenari che evocano le attuali politiche della sicurezza urbana, parole d’ordine del tipo “Tolleranza zero”, fanno piuttosto pensare a una ulteriore espansione del campo di azione della risposta penale.
Se questo è effettivamente il quadro della situazione reale dovremmo realisticamente considerare l’attuale stato di sovraffollamento delle carceri come una condizione destinata a durare ancora molto nel tempo. Ciò che si è verificato in questi anni è, in sostanza, un allineamento dei livelli di detenzione nostrani a quelli degli altri Paesi europei. Quello che abbiamo oggi sotto agli occhi è la normalizzazione del caso italiano. Da questo punto di vista possiamo dire di essere entrati in Europa già nel 1991.
IL MITO DELLA “GOZZINI”
Una seconda opinione che è facile trovare nel pensiero riformista nostrano sostiene che le culture emergenziali hanno snaturato la cosiddetta legge Gozzini, rendendola inoperante. Chi ne denuncia, su questo versante, una crisi sostiene che essa starebbe nella grande crescita del numero dei detenuti, perché si ritiene che l’obiettivo principale della legge avrebbe dovuto essere la riduzione del ricorso alla carcerazione. Proviamo a dare un’occhiata alle cifre di questa presunta crisi.
Nel 1990, tra affidamenti, semilibertà e detenzioni domiciliari, uscirono anticipatamente dal carcere circa 6.000 persone. Al momento attuale ci sono più di 25.000 condannati che scontano le loro condanne fuori dal carcere. Sul piano delle prassi decarcerizzanti, non vedo crisi della Gozzini. Quindi, il giudizio preoccupato sul suo stato di salute nasce da un equivoco ideologico originario. Uno degli argomenti che i riformatori di allora usarono con più insistenza fu che l’introduzione delle misure alternative alla detenzione avrebbe rimosso alcune cause della criminalità, producendo una riduzione dei reati e quindi del ricorso al carcere. Se c’è un assunto che è stato clamorosamente smentito dall’evoluzione concreta della realtà è proprio questa ipotesi correzionale, e cioè quell’ideologia che intravede nel carcere uno strumento di riabilitazione sociale e di prevenzione dei reati.
L’introduzione o l’estensione del campo di applicazione delle misure decarcerizzanti può accompagnarsi tanto a una riduzione quanto ad un aumento del numero dei reclusi. Queste misure possono aiutare a controllare certi fenomeni, ma non hanno la forza per governarne le logiche di movimento. Infatti, la crescita delle misure alternative si è verificata non perché l’Italia stesse vivendo una fase di riduzione dell’intervento penale, ma perché aumentava il numero delle condanne a pena detentiva. Il problema del sovraffollamento delle carceri è determinato dall’invadenza della penalità nell’arena sociale e non lo si affronta agendo sul versante dei provvedimenti “svuotacarceri”.
Se c’è qui una crisi, questa è tutta dei princìpi di civiltà da cui partiva la vecchia stagione riformatrice che portò alla Gozzini. Ciò che è decisamente alle nostre spalle è l’idea di potersi liberare dalla necessità del carcere, perché c’è una società che non riesce più a tradurre alcuni dei conflitti che l’attraversano in domande politiche. In questa situazione il carcere ha guadagnato una sua rinnovata centralità e appare oggi saldamente posizionato nel cuore dei rapporti sociali, agito sempre più come luogo privilegiato della politica.
*Educatore penitenziario, Antigone Napoli