Tempo di lettura: 2 minuti

La notizia della morte di una ragazza di vent’anni ad una festa a Sovicille, nei pressi di Siena è rimbalzata in questi giorni sui media con i toni di sempre, quando ci sono di mezzo droghe e comportamenti giovanili considerati pericolosi. Come al solito, sul banco degli imputati compaiono i rave party, i micidiali mix di droghe, la ketamina, i giovani partecipanti, i “punkabbestia” che li organizzano. Come al solito si diffondono informazioni semplificate, per non dire falsificate, e se ne trascurano altre che potrebbero essere assai utili sia per chi frequenta tali contesti, sia per chi si occupa di questi fenomeni come operatore.
Purtroppo, il caso di Sovicille dimostra che si sta verificando quello che gli operatori più avvertiti prevedevano e temevano, e cioè che a fronte di una diffusa opera di repressione rivolta sia ai comportamenti di consumo di sostanze legali ed illegali, sia ai contesti che, come i rave, ne sono caratterizzati, organizzatori e frequentatori non rinunciano a vivere l’esperienza, ma semplicemente cambiano stile e si nascondono, rendendosi irraggiungibili. L’evento di Siena risponde a questa logica, una piccola festa quasi privata, pubblicizzata attraverso sms in una cerchia ristretta di persone, in un luogo difficilmente raggiungibile come un capanno di caccia in un bosco sperduto.
Nella vasta rassegna stampa che ha seguito l’evento infausto, soltanto un articolo poneva l’attenzione sul tema centrale, ovvero le difficoltà incontrate per portare soccorso alla ragazza e il tempo intercorso tra la chiamata di emergenza e il ricovero in ospedale. La tendenza, in Toscana, è l’organizzazione di feste come quella di Sovicille, mentre sono pressoché scomparsi i rave party “di massa”: nei festival estivi i comportamenti di consumo sono sempre meno visibili, mentre buona parte degli abituali frequentatori hanno abbandonato tale scena, come appare dalle frequenze registrate ad Italia Wave e dal “flop” del festival di musica elettronica che si è tenuto all’autodromo del Mugello ad agosto, un festival che ha registrato al massimo 1.000 presenze in due giorni, contro le 10.000 attese.
Dove sono finiti i giovani che normalmente frequentano questo tipo di contesti? Forse, spinti da un clima repressivo palpabile, hanno optato per qualche festa privata dove si può fare tutto senza essere visti. Tutto ciò nei commenti di politici locali e nazionali viene riportato come un successo, il segnale di un cambiamento nelle politiche rivolte al consumo di droghe. Non è il pensiero degli operatori pubblici e privati che si occupano di questi fenomeni, per i quali la sommersione di intere popolazioni giovanili è il segno del declino preoccupante di un sistema di salute pubblica, con la perdita progressiva della possibilità di operare concretamente per ridurre i possibili danni dovuti agli abusi di sostanze.
Se davvero si vuole tutelare la salute di molti giovani, senza conculcare il loro diritto all’auto-organizzazione e all’ascolto di sonorità attualmente espulse dai circuiti commerciali, occorre essere in grado di cambiare direzione con lucidità e pragmatismo, scegliendo una volta per tutte quelle che sono le priorità riguardo alla salute delle persone.
Stefano Bertoletti