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Finalmente, a distanza di oltre un anno dalla Conferenza governativa sulle droghe di Napoli, il ministro Flick ha illustrato alla Consulta nazionale degli operatori, insediata di fresco, una serie di provvedimenti sul tema (ancora allo studio, peraltro). Il pacchetto è a prima vista ambizioso, spaziando dal trattamento penitenziario dei tossicodipendenti, a quello processuale e sanzionatorio. Vedremo meglio in seguito. È interessante per prima cosa notare la premessa. Il ministro dichiara di voler recepire le indicazioni emerse a Napoli "nella misura in cui siano compatibili con la linea di politica legislativa e penitenziaria di questo ministero". Ma è proprio questa che non emerge con chiarezza dagli enunciati del governo. A distanza di ben otto anni dal varo della legge Jervolino-Vassalli ci saremmo aspettati un bilancio politico della normativa attuale, sulla base del quale elaborare le linee di riforma. Proviamo a tracciarlo. Nonostante il referendum del 1993, l’impianto del testo unico sugli stupefacenti rimane fortemente penalizzante: per l’elevato livello delle pene, per la sostanziale equiparazione fra detenzione e spaccio, e fra droghe leggere e pesanti. Non c’è dunque da meravigliarsi che la legge antidroga sia responsabile per oltre la metà degli ingressi in carcere e i tossicodipendenti costituiscano stabilmente oltre un terzo della popolazione carceraria. A fronte di questa criminalizzazione del consumo di droghe e della tossicodipendenza, la legge del 1990 ha proposto un "alleggerimento" della situazione carceraria con l’affidamento in prova speciale e la sospensione della pena per programmi terapeutici. Via successivamente ribadita dall’allora ministro Martelli, che nel 1993 elevò il tetto di pena al di sotto del quale era possibile accedere a questi istituti (introducendo quindi una "disparità" fra l’affidamento in prova ordinario e quello per tossicodipendenti, a favore (apparentemente) di questi ultimi. Molto ci sarebbe da dire sulla "ratio" e la rilevanza simbolica di questo sistema, che da un lato stigmatizza senza appello come deviante il semplice consumatore e il tossicodipendente; dall’altro accentuando la "specialità" premiale delle alternative "terapeutiche" al carcere, ribadisce lo stereotipo del tossico, parzialmente responsabile delle sue azioni in quanto "malato", ovvero incapace di intendere e di volere. Nelle scorse settimane ha fatto scalpore la sentenza della Corte costituzionale, che ha riconfermato la validità degli articoli 94 e 95 del codice penale: aggravanti per i reati commessi dai "consumatori abituali" (coloro che indulgono a piaceri illeciti) e addirittura la non imputabilità per i tossicodipendenti "cronici", equiparati tout-court ai malati di mente. A ben guardare, però, la rappresentazione dell’uso di droghe e della dipendenza che emerge dal codice del 1930 non è poi molto distante da quella della legge attuale: è solo estremizzata, poiché il tossicodipendente è trattato come un soggetto totalmente irresponsabile, cui a rigori si aprirebbero le porte dei manicomi criminali. Guardando all’orrore di quella prigione, appare senza veli la violenza estrema, superiore a qualsiasi pena, insita nel togliere a un individuo il bene supremo di essere se stesso, soggetto responsabile appunto delle proprie scelte, nel bene e nel male. E sospetto si rivela allora "l’umanitarismo" paternalistico di quanti si stracciano le vesti "per far uscire dal carcere i tossicodipendenti" (senza spendere una parola per attenuare i rigori della legge penale che in carcere li ha condotti, anzi!): all’interno della logica del penale, qualsiasi trattamento "di favore" deve per forza giustificarsi in ragione di una "responsabilità limitata" del soggetto nell’esercizio delle sue azioni, con quanto di "invalidante" e di diminuzione della propria dignità personale c’è in questa rappresentazione. Proprio quella dignità della persona che tutti a parole dichiarano di difendere. Ma non dilunghiamoci su questo, perché è facile essere accusati di ideologismo, quando si cerca di ragionare sulle culture proibizioniste (chissà poi perché!). Atteniamoci a un approccio pragmatico: qual è il risultato delle attuali norme di decarcerizzazione? A dir poco insoddisfacente. È ben vero che è progressivamente aumentato il numero di detenuti tossicodipendenti che ha scelto (si fa per dire) di sottoporsi a programmi in strutture socio-assistenziali (perlopiù comunità terapeutiche), ma ciò non ha affatto significato la diminuzione dei soggetti in carcere. Il che è spia significativa dell’ambiguità di questo circuito alternativo terapeutico, che impropriamente si definisce come tale: in realtà carcere e servizi diventano due vasi comunicanti in un sistema globale di contenimento custodiale della tossicodipendenza (che si allarga, ancorché restringersi). Dunque ci saremmo aspettati fosse "compatibile con la linea del ministero" avanzare almeno dei dubbi sulla scarcerazione dei tossicodipendenti, in assenza di qualsiasi alleggerimento penale "a monte"; e proporre con decisione, anche se con gradualità, quest’ultima come via maestra. Niente di tutto ciò. Il ministro ha elencato una lunga serie di misure, alcune delle quali non disprezzabili, ma che sono ben lontane dal tracciare la direzione politica di marcia del governo: non più di uno sforzo tecnicistico di razionalizzazione dell’attuale normativa. Così è per la proposta di creare in ciascun istituto penitenziario un punto di riferimento per i detenuti ai fini di meglio usufruire delle alternative al carcere, e un’unità operativa, sempre a tal fine, nell’amministrazione penitenziaria; di istituire un collegio con la presenza di "esperti", per rendere più efficiente la norma di sospensione dell’esecuzione della pena in attesa di programmi terapeutici; di sospendere l’esecuzione della pena fino al tetto dei sei anni per i soggetti già riabilitati (di nuovo un ampliamento della decarcerizzazione). Sul versante della depenalizzazione ci si limita a registrare quanto ha già sancito la Cassazione in merito alla coltivazione a uso personale e il consumo di gruppo, non senza sottolineare "gli obblighi sanzionatori derivanti dalle convenzioni internazionali"; con un generico accenno a una "riconsiderazione critica" delle sanzioni amministrative per il consumo personale e una ancor più generica ipotesi di riformulazione dell’ipotesi di lieve entità per lo spaccio. Eppure, un atto politico il ministro l’ha compiuto. Nel corso della discussione al Senato di un provvedimento generale sulla depenalizzazione, ha chiesto di ritirare un emendamento specifico sulle droghe. Emendamento su cui si era trovato l’accordo di tutta la maggioranza. Mentre il ministro riflette sulle "compatibilità" delle indicazioni di Napoli, nel frattempo nessun si muova. È questa la linea?