La giustizia è entrata prepotentemente alla ribalta della scena politica. Può sembrare un’affermazione singolare, visto che da anni la giustizia è terreno di confronto e scontro, senza che niente di nuovo appaia all’orizzonte. Invece le novità, magari sotto traccia, stanno emergendo; nel senso che si profila la possibilità che la transizione si concluda, e questo esito suscita preoccupazioni inconfessate. Se si domandasse a dieci politici e altrettanti giuristi che cosa intendono quando usano il termine giustizia, a che cosa si riferiscono quando affrontano il tema della crisi della giustizia e, infine, quali rimedi propongono, apparirebbe un quadro sconfortante per la babele di lingue, di significati, di intenzioni e proposte. Insomma, con il termine giustizia si allude sicuramente a qualcos’altro, più vasto e meno specifico. Oso dire che la giustizia è la metafora della vita, individuale e collettiva, delle sue contraddizioni, e mette in moto complessi meccanismi di identificazione. Incidere sulla trama è più difficile che sfumare i colori. La crisi di identità del Paese si riflette nell’andamento della giustizia; così come le azioni giudiziarie fotografano l’incertezza dei movimenti della politica. Questo carattere della crisi non appartiene solo all’Italia ma a tutti i Paesi in cui l’autorevolezza del potere politico e l’equilibrio dei poteri si sono perduti.
La vicenda giudiziaria del presidente Clinton si può leggere anche con questa chiave. In tale quadro, non può stupire più di tanto che il congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati sia diventato il luogo della definizione di un nuovo accordo per la Bicamerale, e che, senza scandalo o turbamento, l’intervento di Fini abbia suscitato applausi e consensi generali, a destra e sinistra. Ancora una volta, la politica non è riuscita neppure a immaginare (non dico ad avviare) un confronto con la magistratura sulle storture, gli errori, le riforme necessarie del sistema giudiziario, ma ha pensato bene di andare solo ad accreditarsi, giustificarsi, acquisire meriti. Si è, ad esempio, persa l’occasione di chiedere un esplicito consenso sui princìpi del diritto penale minimo, sulla concreta offensività come presupposto dell’azione penale, sul giusto processo, sulla sua ragionevole durata e sull’esercizio di un effettivo contraddittorio; insomma, si è omesso di verificare se il garantismo “senza pelo” costituisca la base, condivisa anche dai magistrati, su cui ricostruire il patto sociale tra i cittadini. Sarebbe stato interessante chiedere ai congressisti dell’ANM che cosa pensino dei loro colleghi che scrivono sentenze “suicide” e come si debbano sanzionare tali comportamenti, senza che si debba sentire invocare il sacro principio dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. In quegli stessi giorni, si è tenuto il vertice della maggioranza di governo sulle questioni della giustizia. Mai riunione era più opportuna. Una coalizione non può andare in ordine sparso su un tema vitale per gli assetti futuri della Repubblica. Già convenire sul punto che l’agenda politica debba assumere come prioritari i molti provvedimenti impantanati nei meandri parlamentari è un fatto davvero inedito. Che tutti i partiti abbiano chiesto al governo una assunzione di responsabilità e direzione politica, che il ministro Flick abbia manifestato l’intenzione di immettere nel programma un “supplemento d’anima”, che il presidente Prodi abbia voluto definire il 1998 come l’anno della giustizia è sicuramente importante.
Bastano questi segnali? Senza dubbio no. Per dare delle risposte culturalmente innovative, occorrono atti di chiara e inequivocabile discontinuità, che rechino l’impronta della svolta riformatrice. L’abolizione dell’ergastolo e la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, le droghe e il carcere, la soluzione degli “anni di piombo”, costituiscono l’ineludibile termine di paragone tra riforme e ordinaria amministrazione. Giovanni Palombarini sul “manifesto” del 4 febbraio ha scritto che la custodia cautelare colpisce quasi esclusivamente extracomunitari, tossici, giovani sbandati, barboni e zingari, che sono destinati a passare senza soluzione di continuità dalla custodia preventiva alla pena carceraria. Si svela una volta di più la realtà dei 50.000 detenuti: chi sono e perché sono lì. Al di là delle analisi e disquisizioni sociologiche sul disagio e l’emarginazione, vi è un terreno concreto, fatto di carne ed ossa, su cui misurarsi per ripensare il Welfare dal punto di vista degli ultimi e degli esclusi (una volta si sarebbe detto umiliati ed offesi), e non solo dei soliti garantiti. Voltare pagina vuol dire non sfuggire ai temi scottanti, ma affrontarli con rigore e razionalità. Tutto il contrario di quanto è accaduto nella discussione sulla sperimentazione della somministrazione controllata di eroina, dove ancora una volta hanno prevalso timidezze e tabù. Una classe dirigente degna di questo nome studia e prende decisioni, non guadagna tempo. Il tempo, oltretutto, è abbondantemente scaduto. Rovesciando Montale, è ora di dire ciò che siamo, ciò che vogliamo.