Negli ultimi tempi la discussione sulla giustizia ha finito inevitabilmente per risentire del carattere paradossale assunto dalla vicenda di "Mani pulite". Il "garantismo" è diventato troppo spesso la maldestra copertura di altri interessi. Nel caso peggiore, il tentativo di assicurare ai reati del "Palazzo" una sorta di impunità; in altri quello di affrettare il momento (che personalmente non credo arriverà mai: quale paese è in queste condizioni?) in cui poter chiamare l’Italia "un paese normale". Lasciamo da parte la relazione tra giustizia e politica; e occupiamoci invece delle pene. Dovrebbe essere estranea, a uno stato moderno e laico, l’interpretazione "punitiva" della pena. Personalmente, vorrei aggiungere, non credo nemmeno particolarmente nel valore di deterrente psicologico, dissuasivo, della pena, in particolare del carcere. Dopo Dostoievskij, le relazioni tra delitto e castigo dovrebbero apparire, anche alle assemblee parlamentari e alle redazioni dei giornali, come qualcosa di più complesso. La sanzione, sembra a me, può coincidere con la condanna, quasi indipendentemente dalla pena. La pena fisicizza, rende corporale, brutalmente evidente, la sanzione. Tenta, in altre parole, di sfuggire, attraverso la fisicità del carcere, della reclusione, alla perdita di autorità morale dello Stato e delle sue istituzioni. Fa la voce grossa, tenta di spaventare; ma quello che occorrerebbe è altro. Ricordo che sulla fine degli anni Settanta questo tipo di considerazioni era, se non evidente, particolarmente condiviso. Penso a una serie di riflessioni che erano come gemmate dalla contestazione di Franco Basaglia dell’istituzione manicomiale. Introducendo in catalogo una mostra di critica della psichiatria, osservavo come in troppi casi, dalla tossicodipendenza alla salute mentale fino alla reclusione, si tenda a sbarazzarsi del problema sociale da un lato rinchiudendolo, separandolo dal resto della società, dall’altro spettacolarizzando, enfatizzando l’efficacia di questa separazione. Ma se vediamo le cose con occhi sgombri da pregiudizio, qual è l’efficacia del carcere italiano oggi come strumento di recupero sociale (parlo di questo, non della sua dubbia efficacia deterrente?). Dopo una stagione all’insegna dell’edilizia carceraria "di qualità" (da Ridolfi a Lenci, il carcere è diventato tema di ricerca per i migliori architetti italiani), non c’è più neanche questo discutibile tentativo. Si sa che le carceri sono sovraffollate; si sa che in qualche caso (tossicodipendenza) il carcere non solo non aiuta il recupero, ma radicalizza le condizioni di dipendenza ed emarginazione: ma tutto questo viene sopportato come un male necessario, una sorta di fatalità, un aspetto dello "stato gelido mostro", nietzschiano da cui non è possibile difendersi. Queste situazioni si capiscono forse meglio quando sono estreme. Questo penso sia lo scopo – ed è sicuramente il fascino – della mostra "Fine pena mai", che ospiteremo al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 6 al 18 aprile su iniziativa di "Minimum fax" e dell’associazione "Antigone". Sono gli occhi degli ergastolani, soltanto gli occhi, a essere stati fotografati da Giovanni Caccamo. L’occhio è lo specchio dell’anima, dice un luogo comune, tuttavia vero. Gli occhi di questi ergastolani non hanno la stessa espressione. Al contrario hanno espressioni differenti: sentono, oltre alla durata della pena, anche le sensazioni psicologiche del momento. Proprio in queste differenze sta il valore della mostra. Perché resta poi l’orizzonte comune, anzi la mancanza di orizzonte.
* Presidente Palazzo delle Esposizioni, Roma