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Si è svolta dal 15 al 19 marzo a Sao Paolo (Brasile) la 9th International Conference on drug related harm. I partecipanti, provenienti da ogni continente e da oltre 50 Stati, sono stati circa 700, ampia la rappresentanza dei Paesi dell’America Latina. Finora la conferenza era stata organizzata in Europa occidentale, nel Nord America e in Australia, ossia nei Paesi ricchi del mondo. Tali scelte avevano condizionato evidentemente la selezione degli argomenti da trattare. La conferenza di San Paolo ha certamente rappresentato un significativo passo in avanti; le molteplici realtà del mondo sudamericano che operano nel campo delle droghe hanno avuto ampio spazio nel dibattito e hanno contribuito a “relativizzare” il punto di vista europeo/nordamericano. Ho ritenuto quindi opportuno riportare qui alcune esperienze sudamericane, certamente lontane dalla nostra quotidianità ma sicuramente stimolanti per allargare i nostri orizzonti anche con qualche “inversione di ruolo”, ad esempio la cannabis non più “droga” ma medicamento per superare la dipendenza da crack.

“DROGHE” COME “REGOLATORI SOCIALI”?
Edward Mcrae (Brasile) ha illustrato il controllo rituale dell’uso di Ayahuasca nella religione Daime. L’uso e la considerazione sociale delle diverse sostanze dipende dai differenti contesti culturali e religiosi. Nella nazione islamica l’uso della cannabis non è autorizzato e la penetrazione dell’alcool è addirittura contro la loro cultura. D’altra parte, ad esempio in Amazzonia, a partire dal 1930 circa, nella regione del Rio Branco l’uso di una particolare bevanda dagli effetti ‘enteogeni’ (dal greco: che toccano dentro) chiamata Ayahuasca è considerato alla stregua di un sacramento nei rituali sciamanici della religione Daime. Il consumo della sostanza è “controllato” e compreso esclusivamente all’interno di particolari occasioni rituali, in cui fino a 500 persone si ritrovano a pregare, cantare e ballare sotto l’effetto di questa bevanda. Durante e dopo tali cerimonie, che possono durare dalle 8 alle 14 ore, i partecipanti riferiscono di uno stato di benessere e di maggiore armonia con il loro gruppo e con la natura. L’uso di sostanze, il controllo delle bevande ingerite, l’uso di particolari “uniformi” e della musica per creare empatia sono parte integrante della locale religione. Al di là degli interessantissimi aspetti antropologici, questi rituali rappresentano un buon esempio del reale potere delle regole di controllo sociale nel determinare sia gli effetti individuali sia quelli sociali dell’uso di sostanze psicoattive; inoltre, va sottolineata nuovamente l’importanza del setting (psicologico, sociale, culturale e religioso) in cui il consumo di sostanze avviene. La repressione di tali pratiche religiose è in atto non solo per contrastare la sostanza in sé, ma soprattutto per distruggere alcune dimensioni antropologiche: un approccio “colonialista” alle soglie del terzo millennio. Edward Moe Rea (Brasile) ha presentato un’analisi del gruppo religioso di Padre S. Sebastiano operante in Brasile. Diverse sono le prescrizioni di questo gruppo: non bere alcool prima delle funzioni, non avere rapporti sessuali tre giorni prima o dopo alcuni importanti eventi, indossare particolari vestiti, ascoltare una determinata musica, suddividersi nelle cerimonie tra donne e uomini, tra giovani e vecchi, usare cannabis durante le cerimonie. La cannabis viene chiamata Santa Maria: è la donna più importante, nelle varie culture è sempre donna. In India, Persia, Mesopotamia e anche in alcuni gruppi di indiani del Nord America si usava la cannabis come componente delle pratiche religiose. In secoli recenti, invece, l’associazione tra cannabis e cultura nera è stata considerata diabolica. Nel gruppo di Padre S. Sebastiano è necessario imparare a usare in modo corretto la cannabis, ovvero secondo le regole dei rituali, diversamente il suo uso è considerato diabolico; così, anche l’alcool può essere assunto ma non fuori dallo spazio ove si fanno le celebrazioni. Presso un altro gruppo religioso brasiliano, la cannabis è utilizzata per realizzare una conversione. Questi esempi, provenienti da aree geografiche lontane dall’Occidente, mostrano come l’accettazione o il rifiuto di alcune sostanze dipende esclusivamente dalle specifiche culture e dalle trasformazioni che hanno subito durante i secoli. Alberto Bialovisky (Argentina) ha tentato un coraggioso confronto sull’utilizzo in differenti società di diverse sostanze come strumento di “socializzazione”, secondo le regole culturali dominanti nei differenti contesti. L’assunzione di cloridrato di cocaina è una tradizione andina che data almeno da 1500 anni, connessa a una dimensione sovrannaturale. Tale assunzione facilita il dialogo con se stessi e con la comunità, si colloca in una relazione rituale e in una dimensione mitologica, esplicita i concetti di reciprocità, solidarietà, rappresenta un legame con la madre-terra (figura religiosa) e inoltre facilita lo sviluppo di “materiale inconscio”. In Occidente, il rituale odierno passa attraverso l’esibizione del consumo individuale, come ad esempio è evidenziato in un manifesto intitolato “Terapia di gruppo” che mostra molte persone con boccali e/o bottiglie di birra, ossia l’alcool con una funzione socializzante, o come mostra la pubblicità di un prodotto alcolico, ove con il sottofondo della musica di Trainspotting la pubblicità esalta la bevanda come “facilitatrice” nel fare goal. Nel passato presso alcune popolazioni andine i rituali assumevano il significato di una purificazione passando attraverso una “situazione eccezionale”, di tabù. Negli esempi dati, gli attuali rituali occidentali producono: decadimento dei soggetti, aumento del consumo e ansietà. Attraverso la riduzione del danno è possibile formare cultura cercando di integrare il rituale in una cultura ecologica non violenta.

I GIOVANI BRASILIANI E LA CANNABIS
Ane Regina Noto (Brasile) ha presentato una ricerca sull’uso di droghe tra gli studenti tra i 10 e i 19 anni (Belem, Belo Horizonte, Brasilia, Curitiba, Porto Alegre, Recife, Rio de Janeiro, Salvador e São Paulo). L’indagine è stata realizzata nel 1987 e quindi ripetuta per verificare l’evoluzione dei dati nel 1989, 1993, 1997. Gli studenti coinvolti sono stati 15.503. Secondo i dati del ’97, il 24% di loro fa uso di droghe; le sostanze più usate sono, nell’ordine: solventi, cannabinoidi, ansiolitici, anfetamina, cocaina. L’uso di cannabis, alcool e cocaina tende progressivamente ad aumentare, l’aumento principale nel consumo di cannabis si è osservato nelle città di Belem e Porto Alegre; in tutte le altre città i cannabinoidi sono al 2° o al 3° posto. Sono diminuiti i casi di ospedalizzazione per uso di cannabis, mentre aumentano quelli per uso di cocaina. A oggi non è stata realizzata attraverso i media alcuna campagna verso l’uso dei solventi. Oltre ai numeri, ciò che con forza emerge dalla ricerca sono le modifiche nell’attitudine sociale nei confronti della cannabis. I risultati sembrano indicare chiaramente che per la prima volta in 10 anni la marijuana ha quasi raggiunto i solventi come droga di uso più frequente (lifetime). L’uso frequente (definito nella ricerca come 6 volte o più, in un mese) è incrementato notevolmente in termini statistici. I risultati danno adito a due possibili ipotesi: gli individui hanno ora minori timori nell’ammettere un uso di cannabinoidi che è sempre stato alto oppure, d’altro canto, l’uso è effettivamente cresciuto negli ultimi 10 anni. In ogni caso, i ricercatori suggeriscono un adeguamento delle politiche di informazione e prevenzione brasiliane, alla luce di quanto da loro riscontrato. Nessuna disponibilità a muoversi in questa direzione sembra giungere dal governo. Estremamente interessante il lavoro di Eliseu Labigalini Jr (sempre del Brasile) sulla dipendenza da crack e la riduzione del danno attraverso la cannabis. È stato condotto uno studio da un gruppo di psichiatri dell’Università di S. Paolo sui rischi e gli effetti dell’uso di cannabis in chi fa uso di crack, all’interno del servizio PROAD/UNIFEST (Programa de Orientação e Assistência ao Dipendente/Universitade Federal de São Paulo). Il crack sostituisce spesso la cocaina quando questa viene fatta scomparire dal mercato, soprattutto a causa della capacità di creare una forte dipendenza in poco tempo. L’uso di cannabis era finalizzato ad alleviare i sintomi dell’astinenza da crack. Venti uomini di età compresa fra i 16 ed i 28 anni, già consumatori di cannabinoidi, con una diagnosi di grave dipendenza da crack, (in accordo con gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità), sono stati coinvolti nello studio. Tutti hanno riportato una diminuzione dei livelli di ansia e modificazioni soggettive e materiali nei loro comportamenti. È stato osservato che l’uso di cannabis ha raggiunto un picco durante i primi 3 mesi di trattamento, quando la sostanza veniva assunta quotidianamente, con un consumo medio di 3-4 sigarette di marijuana al giorno. A 12 mesi dall’inizio della ricerca, 14 individui (70%) hanno cessato l’utilizzo di crack senza alcuna complicazione di origine somatica o psichica. Nei 9 mesi successivi nel gruppo l’utilizzo individuale di cannabis è continuato ma finalizzato solo a momenti di socializzazione. Nonostante fosse un progetto di ricerca ufficiale dell’università di San Paolo, data “l’illegalità della cannabis, ogni partecipante allo studio ha dovuto procurarsi personalmente la dose di “fumo” da assumere.

UNA POLITICA DI INCLUSIONE SOCIALE
Con questa conferenza si è forse definitivamente superata un’impostazione “riduzionistica” della riduzione del danno. A maggior ragione in un contesto internazionale è apparsa evidente l’impossibilità di ridurre le strategie Harm Reduction a un insieme di mansioni, di azioni pragmatiche o di prescrizioni. La forza stessa della riduzione del danno sta nella capacità di tendere sempre verso la “perfezione” ossia verso l’assenza di danni individuali e collettivi derivanti dall’uso di droghe sapendo già in partenza che tale obbiettivo non può essere realisticamente raggiunto almeno in questa epoca storica. La consapevolezza dei propri limiti intrinseci si trasforma paradossalmente nella sua forza; la continua tensione verso un obbiettivo oggi non raggiungibile dovrebbe essere un continuo stimolo a esplorare strade nuove, finora mai attraversate, in un percorso di avvicinamento, per continua progressione, all’obbiettivo dichiarato. Ne deriva quindi un’elasticità, una duttilità e una sperimentalità che non dovrebbero essere semplicemente una caratteristica della giovane età di tale “scienza” ma che dovrebbero costituirne l’essenza stessa. Questa dovrebbe diventare un forte antidoto non solo a ogni ideologizzazione dell’Harm Reduction ma anche a ogni tentativo di definire una volta per tutte modelli esemplari da indicare come esempi da fotocopiare e da asportare. L’Harm Reduction si muove su un terreno molto concreto ove agiscono molteplici forze sociali e culturali, ove si misurano strategie politiche e interventi legislativi: ridurre i danni significa avere la capacità di compiere un’analisi precisa delle forze e delle tendenze in campo e individuare quelle strategie che in quel contesto preciso, differente da un altro, possono ottenere risultati concreti. Ma questo pragmatismo deve sempre sapersi accompagnare con un “volare alto” con la ricerca di un’etica capace di sfuggire ad un riduzionismo d’ordine, ossia capace di confrontarsi su valori forti, non su uno status quo da difendere o da raggiungere. L’etica capace di non trasformarsi in ideologia e quindi in moralismo; un’etica salda nei valori dichiarati ma in “rivoluzione permanente” nelle sue concretizzazioni storiche e per questo capace di incrociare e valorizzare la sperimentalità del modello scientifico. Modello che contiene come parte integrante la necessità di verifiche continue, di validazioni e di valutazioni tanto più “veritiere” quanto meno finalizzate a verità precostituite. L’Harm Reduction, quindi, come una forma di politica sociale, forse la forma oggi più “alta” di politica sociale capace di misurarsi con la globalizzazione delle economie e con la specificità non solo del consumo di sostanze ma anche delle sofferenze sociali. Una politica sociale, in un periodo segnato dall’esclusione di profonde masse di uomini e di donne dagli sviluppi storici ufficiali, fortemente inclusiva: nessuno, infatti, può ad esempio pensare di ridurre i rischi del consumo, della diffusione, dell’assunzione di sostanze senza ricercare continuamente il protagonismo e la collaborazione dei soggetti consumatori. Senza tale collaborazione nulla si può ottenere, come dimostra il fallimento universale di ogni politica proibizionistica; ma tale collaborazione non può certo prescindere (e questo è stato al centro della Conferenza di San Paolo) da un’attenta analisi degli ambienti e delle culture da dove nascono e si sviluppano i “consumi di sostanze”. Non più, quindi, una separazione a priori tra legalità e illegalità ma un confronto e un’analisi continua con storie, percorsi e conseguenze individuali e collettivi, con confini mai definiti una volta per sempre. Una prassi di inclusione che, di per sé, definisce meglio di ogni altra parola la scommessa vera delle politiche sociali di Harm Reduction.

Vittorio Agnoletto Presidente nazionale LILA