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‘‘L’eroina è la bestia di sempre”, si legge sull’Espresso dell’11 gennaio 2008 a proposito della “nuova emergenza” rappresentata dai giovanissimi che inalano eroina “illudendosi” di non correre alcun rischio e di essere “ragazzi normali”. È un nuovo allarme che si aggiunge a quello ormai consueto sulla cocaina. C’è da chiedersi se non esista un modo per indagare i consumi alternativo al consueto sensazionalismo emergenziale e alla focalizzazione farmacologica, sulla sostanza-demonio. Quelle che seguono sono alcune riflessioni, per segnalare un approccio culturale alla conoscenza sull’uso delle sostanze psicoattive, presumibilmente più fruttifero di quello corrente.
Sappiamo oggi che in diversi contesti socioculturali sostanze chimicamente identiche possono avere effetti anche opposti sull’utilizzatore. Come da tempo hanno segnalato Howard Becker e Norman Zinberg, l’effetto chimico della sostanza sul cervello viene infatti interpretato mediante le coordinate socioculturali di riferimento del consumatore, che associa all’esperienza specifici significati: i valori e significati legati all’uso di una sostanza, e dunque gli effetti, sono dunque socialmente appresi, e possono variare al mutare dei contesti. Così ad esempio la cannabis ha generalmente effetti rilassanti per gli europei, mentre per i consumatori giamaicani o indiani riveste spesso il ruolo di tonificante, di sostegno lavorativo.
La componente socioculturale gioca un ruolo centrale tanto per chi usa la sostanza, quanto per chi non la usa, ma abita lo stesso sistema socioculturale. Anche l’astinente associa infatti precisi significati e valori al consumo di sostanze. Nel nostro sistema socioculturale l’ubriachezza è tendenzialmente tollerata, e comunque è concessa e perdonabile. L’alcol non è (popolarmente) considerato una droga: prevale l’idea che la perdita di controllo che la sua assunzione può causare sia momentanea, e che non debba necessariamente ripetersi. La “fusione” da eroina provoca invece nell’osservatore sdegno e paura, perché richiama un immaginario di malattia, delinquenza, morte: prevale l’idea che la perdita di controllo sia totale, difficilmente recuperabile, e che ad essere momentanei siano solo gli sprazzi di lucidità tra una dose e quella che inevitabilmente seguirà.
Più l’uso di una sostanza si radica nel tempo e nella tradizione condivisa anche da chi non consuma, meno questioni solleva: l’alcol e il tabacco sono esempi perfetti. I problemi insorgono quando le sostanze sono “nuove”: non cronologicamente, ma relativamente al contesto in cui si inseriscono e alle modalità di assunzione. O quando, pur non essendo nuove nemmeno relativamente, il loro uso è forzatamente “espulso” dalle pratiche considerate legittime del “corpo sano” della società, che rinuncia così ad esercitare un controllo diretto su di esse, sostituendolo con la repressione/cura del consumatore. È il caso della cocaina o dell’eroina, diffuse in origine su scala industriale come panacee prive di controindicazioni (dunque sottovalutate), e trasformatesi nell’arco di un secolo in veri e propri demoni: dunque sopravvalutate, al punto che l’immaginario pubblico arriva a dotarle di una volontà propria, come nel servizio de l’Espresso citato.
Generalmente, nel discorso pubblico e spesso anche accademico, il mondo dei consumatori e quello dei non consumatori sono tenuti separati. Il concetto stesso di “subcultura”, nato come strumento utile ad una più profonda comprensione del reale, è divenuto strumento di separazione, quasi di discriminazione: l’idea dominante è che ad usare sostanze siano culture “altre”; che, cioè, l’uso di “droga” sia appannaggio delle “subculture”, non della “normalità”. La realtà è diversa. L’uso di sostanze è una costante antropologica (il che non significa però che riguardi tutti gli esseri umani): il livello subculturale non identifica l’uso in sé, ma piuttosto particolari e differenti stili (riti) e significati (identità) conferiti al consumo di quella particolare sostanza, che non è detto rappresenti davvero il nucleo intorno a cui quella “subcultura” si impernia. Inoltre, “subcultura” e “cultura dominante” non occupano universi distinti, condividono invece il medesimo. L’una influenza l’altra, in un gioco di specchi e di rimandi che dà luogo ad una determinazione reciproca. I significati che la cultura mainstream affibbia ad una sostanza concorrono necessariamente a determinare la “subcultura” di molti dei suoi consumatori: se l’eroina non fosse stata bandita, non avrebbe mai potuto assumere in sé né i valori controculturali per cui è divenuta appetibile in determinati ambienti (che non hanno necessariamente rappresentato la totalità del vasto universo dei consumatori), né tantomeno i disvalori per cui è tristemente nota presso la cultura dominate (che contribuiscono notevolmente alla costruzione sociale del tossicodipendente come deviante e alla sua autopercezione come tale).
Comprendere il fenomeno del consumo di sostanze significa tener presente tutti questi aspetti. E rifiutare la centralità della sostanza in quanto tale (cioè la centralità della sua composizione chimica) per recuperare quella della pratica culturale. Non si tratta di sostituire il paradigma medico-biologico con quello socioculturale, ma di equilibrarne il rapporto. Le sostanze non hanno vita propria, non hanno volontà e non hanno più potere di quello che gli viene conferito (a livello sociale, chiaramente, non medico-biologico, ma spesso i due piani vengono sovrapposti). L’idea della centralità della sostanza produce solo l’accavallarsi di allarmi su allarmi, e ha l’effetto della profezia che si autoavvera, conferendo effettivamente alla “droga” il potere di sconvolgere la nostra società ad ogni sua fulminea, incontrollabile, apparizione.
Occorre poi superare la dicotomia consumatori-non consumatori, ossia subcultura-cultura mainstream, nel senso che occorre ritornare a considerarle come dimensioni contigue, sfumate, sia pur differenti, e capaci di determinarsi reciprocamente, come ha segnalato di recente David Donfrancesco. Per molti aspetti, è proprio la relazione tra la dimensione delle pratiche di consumo e quella della rappresentazione mainstream che dovrebbe essere indagata: quel terreno che la scuola dei Cultural Studies definisce come “cultura popolare”, luogo di sintesi, di scontro e di definizione tanto delle subculture quanto inevitabilmente della cultura dominante. C’è da indagare e spiegare la coerenza che la diffusione dei consumi ha con il nostro sistema socioculturale e produttivo, invece di cercare di dimostrare il contrario; c’è da capire come fa una “droga” a diventare tale, come effettivamente le coordinate culturali, l’immaginario individuale e collettivo, i valori e i legami sociali influenzano i risultati e le conseguenze dell’uso. Occorre, infine, osare: ammettere che se le “droghe” vengono (largamente) usate, è perché hanno effetti (reali o percepiti: falsa dicotomia) talmente positivi da azzerare ogni “percezione del rischio”.
Sappiamo già tutto sulle conseguenze negative e sui terribili rischi, e fino ad ora questo non sembra averci aiutato molto: segno che nessuna equazione matematica, in questo caso, è abbastanza assoluta da definire, da sola, la complessità e la fluidità del fenomeno.