Tempo di lettura: 4 minuti

Il referendum del 1993 ha sancito per il medico di medicina generale la possibilità, così come in altri Paesi europei, di prescrivere su ricetta o di somministrare al proprio paziente tossicodipendente il metadone, quale farmaco necessario e sostitutivo. Le successive linee guida del ministero della Sanità hanno previsto, anche per i Ser.T., la possibilità di “affidare” il metadone, superando la precedente restrittiva indicazione dell’assunzione diretta del farmaco davanti all’operatore sanitario. Le due indicazioni, con intelligenza e buonsenso, a mio avviso, hanno tenuto conto del dato reale: un numero significativo e in crescita di tossicodipendenti; una differenziazione del fenomeno; la necessità di risposte diversificate in relazione alle caratteristiche specifiche della persona e del suo particolare problema; il bisogno di ampliare per quantità e qualità, all’interno dell’apparato sanitario, gli attori in grado di erogare risposte personalizzate. Ovvero si è dato inizio, con fatica e contraddizioni, a un percorso di presa in carico del/dei problemi e a un processo di “normalizzazione”. Come se il tossicodipendente fosse anche lui un “cittadino” come tanti, abbiamo finalmente iniziato a preoccuparci, all’interno del sistema sanitario nazionale, dell’organizzazione di servizi adeguati (Ser.T., medici di Medicina Generale, ecc.) accessibili all’utenza, fruibili; abbiamo parlato di fasce orarie, di utenti lavoratori; con l’attivazione dei medici di Medicina Generale e la prescrizione di metadone nel loro ambulatorio, abbiamo tentato di superare i problemi che nascono dall’aggregazione di molti tossicodipendenti in un’unica sede specialistica e affrontato la necessità di personalizzare la risposta; abbiamo “affidato” il metadone come fosse un “normale” farmaco dove le esigenze dell’individuo lo richiedevano e le sue caratteristiche lo rendevano praticabile; abbiamo implementato le relazioni con il privato sociale e gli Enti locali per erogare risposte più articolate e adeguate alla complessità del problema. Non abbiamo neppure sottovalutato il rischio che una piccola parte del metadone, quale possibile conseguenza dell’affido, finisse nel “mercato nero”. È un’evenienza, questa, che conoscevamo e conosciamo, di cui ci preoccupiamo e che cerchiamo di circoscrivere attuando una “buona” pratica terapeutica. Ma è del “positivo” che dobbiamo soprattutto tenere conto se vogliamo raccogliere dei risultati, puntare al cambiamento della persona, della sua vita di relazione, del suo problema. Un “positivo” che, per quanto riguarda il tossicodipendente, significa evidenziare e far leva sulle sue abilità e le sue capacità; favorire l’assunzione progressiva di responsabilità con la modifica di comportamenti devianti e/o a rischio. E per quanto riguarda l’organizzazione sanitaria e sociale, significa ideare e articolare nuovi servizi, più duttili, flessibili, rispondenti ai bisogni di un cittadino che può condurre una normale vita di relazione, pur condividendo con il proprio problema, se facilitato nell’accesso e nella qualità delle risposte. Quanto più il problema si banalizza, nel senso che si inscrive in un percorso di normalità, tanto più è possibile limitarlo o superarlo, permettendo alle persone di venire allo scoperto e finalmente vivere senza “maschera”. Ci sono state questa estate delle intossicazioni per assunzione di metadone da parte di bambini; Jessica è morta. Sono fatti drammatici e per fortuna eccezionali; la pericolosità del metadone è pari a quella di una qualsiasi altra medicina che venga lasciata in casa e incidentalmente venga assunta da un bambino. Ma un episodio di cronaca terribile come questo non crea solo partecipazione e dolore; immediatamente, scatena la messa in crisi di quei percorsi di “normalità” che si cerca di garantire ai tossicodipendenti e che le norme e le indicazioni del ministero hanno appena avviato. Una volta scatenato l’allarme, infatti, non viene indagato, criticato e, se è il caso, punito solo l’individuo o il genitore nella cui casa si è verificato il fatto, ma individuata artificiosamente una categoria dove “la droga”, quale comune denominatore, finisce per omologare le persone nella loro totalità. Creata la categoria, tutti i tossicodipendenti vengono messo sotto accusa: non esistono più i diritti di ciascun individuo, i suoi doveri, le sue responsabilità, le sue colpe. Le semplificazioni o, peggio, le omologazioni hanno prodotto e producono mostruosità: avviano i processi che portano alla costruzione del pregiudizio e da qui inesorabilmente all’emarginazione e alla discriminazione. Costruito il pregiudizio, si abbandona obbligatoriamente il campo della “normalità”. Infatti, così facendo, non solo si compie un’azione iniqua, ma soprattutto si distrugge quel percorso di “banalizzazione-normalità” che restituisce opportunità e dignità al cittadino tossicodipendente e lo provoca all’assunzione di continue responsabilità; in caso contrario, si torna a “coprirlo” con l’alibi della diversità che paralizza, blocca qualunque ipotesi di cambiamento. Esistono dei cittadini che assumono sostanze stupefacenti. Così come esistono dei genitori che assumono sostanze stupefacenti. Di questi, alcuni sono amorevoli, attenti, adeguati, capaci di fornire tutto il supporto che serve alla crescita di un bambino; altri non lo sono. Come esistono genitori che lavorano alle poste, in ferrovia, negli ospedali o in tribunale e di questi molti sono adeguati, altri non lo sono. È la lettura dei problemi nel loro divenire storico e contestuale che può produrre conoscenza. Non mi sembra che vadano in questo senso proposte come quella avanzata dalla Commissione voluta dalla ministra Turco sulle “strategie di contrasto ai maltrattamenti e agli abusi all’infanzia”, di cui ho letto sulla stampa, in base alle quali ogni bambino nato dai genitori tossicodipendenti dovrà essere di norma segnalato ai servizi sociali. Mentre più appropriata mi pare una sentenza della Corte di cassazione che rigetta una ordinanza di allontanamento di un bambino da una madre affetta da disturbo mentale per carenza di motivazione. A sostenere l’ordinanza di allontanamento veniva invocata la diagnosi di malattia mentale Il giudice di cassazione ha sottolineato che non la malattia ma la valutazione delle reali capacità della madre e l’adeguatezza del contesto devono essere considerate. L’analisi “caso per caso” poteva essere la griglia interpretativa dei fatti di cronaca avvenuti questa estate. Ne avremmo guadagnato in conoscenza e, ove evidenziate lacune o vere mancanze, avremmo potuto indicarne le relative responsabilità e richiedere agli apparati coinvolti – sanitario, giuridico, sociale – un intervento più appropriato.

* Psichiatra, responsabile Dipartimento delle Dipendenze, Azienda per i Servizi sanitari n. 1, Trieste