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Ho l’impressione che un certo bigottismo centrosinistroso sia fiorito nei convegni e nelle discussioni sulle sostanze, negli articoli dei giornali, nelle tavole rotonde. Così mentre Albertini gira per Milano dichiarando candidamente che da giovane “spipacchiava” spinelli e Guazzaloca, a Bologna, autorizza lo Street Rave Parade antiproibizionista del “Livello 57”, la classe dirigente protosinistrina continua a nascondere le proprie confuse idee per fare capolino solo quando una bella colorata campagna pubblicitaria è pronta ad invadere televisioni e riviste patinate. La riduzione del danno è diventata un cavallino da battaglia, politically correct, per nascondere le paure elettorali e le magagne ideologiche che bloccano un sano intervento sociale e un genuino movimento antiproibizionista. Un cavallino azzoppato, questo della riduzione del danno, visto che importanti interventi che si attuano da tempo nel Nord Europa in Italia non sono applicati. Come l’analisi sulle “pasticche”, per difendere i consumatori dal mercato clandestino, che la nostra legislazione, si dice, proibisce. Un cavallino con in sella fantini assetati di ori e denari, mai disposti allo scontro, sempre pronti a ritirate strategiche, a inversioni di rotta con alleanze improbabili o ad abili ricerche tra gli intricati sentieri del finanziamento pubblico. Un cavallino senza storia e senza eroi, insomma. Ed ancora una volta, il fatto che l’Italia sia cattolica aiuta fantini e relativi sponsor a trovare un capro espiatorio per la totale assenza di un pragmatismo moderno ed efficace che essi stessi non hanno saputo perseguire neanche dove hanno governato per mezzo secolo. Se la riduzione del danno funziona rispetto all’urgenza del problema eroina, è altrettanto vero che i centri scambia-siringhe o le safe injection rooms fanno perdere consenso e quindi voti. La responsabilità tuttavia non è soltanto dei bigotti cavalieri di centro o degli incapaci fantini di sinistra, ma è distribuita tra tutti noi: risiede nella pressoché totale assenza di un approccio personale e collettivo, aperto, sincero e disinteressato attorno all’universo culturale delle sostanze. Ma allora che cos’è l’approccio culturale? Chi ne sono i fautori? L’approccio culturale nasce dall’idea che trattare il fenomeno droghe esclusivamente o principalmente come un problema medico-sanitario sia riduttivo e inefficace. Ciò non significa che i progressi in questi campi non siano utili, ma piuttosto indica la necessità di spostare il baricentro del nostro pensare e del nostro agire verso una comprensione più profonda del fenomeno. Per ottenere questo occorre far confluire discipline come l’antropologia, la sociologia, le lettere, la filosofia, la psicologia, assieme all’esperienza diretta dei consumatori, ai vissuti dei protagonisti, alle mille storie che si consumano tra una canna, una pillola o due bicchieri di vino. Questo approccio diventa indispensabile qualora si voglia argomentare qualcosa di sensato sulle metamfetamine e sulle nuove abitudini di consumo. Ad esempio vi siete mai domandati perché questa generazione non si affeziona agli allucinogeni pur reperibili sul mercato illegale ma predilige drasticamente l’uso di empatogeni? Vi siete mai chiesti il perché dele discoteche come luogo di consumo? E se ritenete che i consumatori dei centri sociali siano più consapevoli, meglio informati e quindi soggetti a rischi minori, non pensate che questo modello culturale possa essere esportato? Il tempo stringe cari signori e iniziano ad esserci persone pronte a fare bistecche dei cavallini da battaglia storpi e dei loro fantini paurosi.

*Laboratori sociali, Livello 57, Bologna.