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A proposito di Hack-it ’98, è stato sorprendentemente non banale il tentare di descrivere e di “giustificare” l’iniziativa stessa a tutti coloro che me lo chiedevano, e che ovviamente erano ancor più estranei di me alla questione. Cosa c’entra, dicevano, l’informatica coi centri sociali? Che cosa significa la parola “hacker”?

Ma andiamo con ordine. I fatti: dal 5 al 7 giugno, al CPA Firenze Sud, il centro sociale che occupa un’immensa area ex-industriale poco distante dal centro città, centinaia di persone appassionate di information technology si sono incontrate “contro ogni barriera, per la libera circolazione del sapere”. Dallo “smanettone”, quasi indistinguibile dalla macchina a cui è perennemente collegato, al militante veterano di mille manifestazioni di piazza. E i mitici hacker? Naturalmente anche loro (magari sotto le miti spoglie di uno studentello che aveva bigiato la scuola). Il significato del termine hacker non è facile da rendere. Generalmente viene tradotto con “pirata” da chi vuole denigrarlo (mass-media tradizionali in testa), mentre chi vuole sottolinearne il valore ideale si affida a parafrasi: persona che vuole riconquistare il suo legittimo controllo sulla tecnologia dell’informazione, e quindi sull’informazione negata.

Di storia dell’informatica si sa troppo poco. Chi, come me, ha imparato a smettere di temerla solo pochi anni fa, può credere che sia sempre stata come oggi: uno compra giganteschi pacchetti software prodotti da pochi ciclopi multinazionali, li installa, sottoscrive senza leggerli lunghi contratti di licenza, e poi se (se) tutto funziona bene, il programma è assolutamente user friendly. Poi esce la nuova versione, quella vecchia comincia a non aprire più i file prodotti dai propri colleghi, e le riviste specializzate partono col loro battage, insomma senza capir bene perché, ci si vede costretti a comprare l’aggiornamento, più grosso, amichevole e colorato.

Negli anni Settanta, che per l’informatica personale hanno rappresentato una mitica età dell’oro, pare non fosse così. Il terreno era totalmente inesplorato. C’era, certo, il colosso IBM che imperava nel campo dei grossi calcolatori, ma quello del computer domestico era un concetto nuovo; le novità più geniali venivano fuori dai garage di inventori indipendenti, in un clima di grande collaborazione scientifica e di appassionata ricerca. Si voleva condividere il nuovo sapere e avvicinarlo il più possibile alla cultura e all’uso quotidiano della gente. Ho sentito definire il termine hacker anche in riferimento a questi eroi quasi mitologici, e questa definizione non mi è parsa in contraddizione con le altre.

Nel background culturale dell’Hackmeeting c’era anche l’esigenza di capire cosa di questo sogno si fosse realizzato e cosa no. L’informatica è senz’altro entrata nella nostra vita quotidiana. E una parte del merito – lo si può negare? – va anche attribuito a chi, nelle grandi software house, ha capito che l’uso del computer aveva bisogno di pompaggio commerciale, accompagnato da uno sforzo per renderlo più intuitivo e abbordabile (non per questo più efficiente o affidabile).

Ma questa capillare diffusione è avvenuta e avviene nella maniera più distante possibile dall’idea originaria. Se oggi uno compra un pacchetto software, non acquisisce praticamente nessun diritto su quel codice. Non può fare “retroingegnerizzazione”, cioè non può tentare di capire come quel programma funziona. Non può modificarlo, se anche ne fosse in grado. Peggio, non può rivenderlo, prestarlo, non è suo in nessun senso. Ne acquisisce solo una licenza d’uso. Non so se il paragone sia calzante al 100%, ma è un po’ come acquistare un’automobile col cofano sigillato, e che rimane proprietà del costruttore anche se tu hai diritto di usarla. Per cambiare le candele, devi affidarti a lui. Questa serie di forti restrizioni legali mettono l’acquirente in totale balia delle scelte progettuali e commerciali del costruttore.

Ci si può spingere oltre, nella metafora. Per far funzionare un computer, per far girare qualunque programma occorre un sistema operativo. Così come per far camminare qualunque automobile servono le strade. Ma mentre le strade, e a nessuno sembra strano, sono di proprietà e di gestione pubblica, i personal computer del mondo intero funzionano in stragrande maggioranza grazie alla famiglia di S.O. della Microsoft, multinazionale privata. Nel senso detto prima, sono sistemi operativi fatti da qualcuno, e di sua esclusiva proprietà, non modificabili da parte dell’utente, che ne diventa dipendente nei fatti per essere compatibile col resto del mondo, un po’ come un automobilista dipende dal sistema stradale. Non può sorprenderci il fatto che l’azienda sia sotto accusa, in modo sempre più insistente e concreto, per comportamento monopolista e concorrenza sleale.

Quello di un sistema operativo “libero” di grande livello tecnologico è un progetto che già da qualche anno si va concretizzando grazie all’impegno di centinaia di volontari coordinati dalla Free Software Foundation. Si tratta del noto S.O. Linux. L’aggettivo free si riferisce non tanto al prezzo, dato che nessuno nega ai programmatori il diritto di essere pagati per il loro lavoro, quanto al fatto che nella sua filosofia è insita la possibilità per l’utente finale di studiare e personalizzare il codice e di condividere con la comunità degli altri utenti i suoi eventuali miglioramenti. Richard Stallmann, il “guru” il cui nome è maggiormente legato alla FSF, fa esplicito riferimento agli anni Settanta nel descrivere questa filosofia.

E il bello è che Linux funziona; sono in pochi a saperlo perché, nonostante la sua buona qualità, non gode di supporto commerciale, inteso anche nel senso migliore del termine, cioè di una capacità di farlo conoscere, installare e usare facilmente anche a chi non sarebbe mai né capace, né intenzionato a mettere le mani nel codice, cioé al 99% degli utenti. Purtroppo il fatto di mantenere, anche involontariamente, un atteggiamento elitario da “duri e puri” da parte dei “Linuxisti” nei confronti degli utenti di Bill Gates non giova a questo scopo. Nell’Hackmeeting c’è stato ampio spazio per i “Linuxisti” consumati; un po’ anche per i neofiti, ma ancora troppo poco.

Hack-it ’98 è stato molto più di quanto queste mie brevi osservazioni lascino intendere. E’ stato, tra l’altro, un evento organizzato con scarsi mezzi, principalmente per l’orgoglioso rifiuto, da parte degli ideatori, di qualunque offerta di sponsorizzazione o di “protezione” da parte di aziende o istituzioni. Un evento auto-organizzato e onestamente ben riuscito. Si è tenuto non a caso in un centro sociale (spero che ora sia meno oscuro il perché) che sta affrontando una dura lotta col Comune per sopravvivere ai forti appetiti commerciali di chi aspira a quel ghiotto terreno. Un’iniziativa di respiro internazionale per far conoscere, crescere, rendere sempre più credibile un’alternativa.

* CGIL Nazionale – Ufficio Nuovi Diritti