Tempo di lettura: 3 minuti

La lettura della proposta di direttiva sul rimpatrio dei cittadini di paesi terzi soggiornanti illegalmente approvata nei giorni scorsi dal Parlamento europeo fa sorgere alcuni interrogativi, come si dice, di fondo: che fine hanno fatto le tradizioni costituzionali europee sviluppatesi intorno ai princìpi dello stato di diritto e dell’habeas corpus? E a sessant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo cosa resta delle promesse dell’universalismo, dell’idea che esistono diritti e garanzie inviolabili riconosciuti sempre, comunque e ovunque alla persona, a tutte le persone?
Il punto più controverso di quella che è stata giustamente definita la direttiva della vergogna è rappresentato dal trattenimento in centri di «permanenza temporanea»: di regola, il trattenimento non può superare i sei mesi, ma può essere protratto di ulteriori dodici mesi in caso di mancata cooperazione da parte dello straniero o di ritardi nel conseguimento della documentazione necessaria al rimpatrio.
Dunque, diciotto mesi di reclusione in assenza di fatti-reato: una detenzione amministrativa abnorme, di carattere sostanzialmente punitivo (ma disciplinata appunto al di fuori dei princìpi e delle regole proprie dell’ordinamento penale), macroscopicamente sproporzionata rispetto allo scopo proclamato di realizzare l’espulsione, posto che, come testimonia l’esperienza degli operatori, i tempi reali per effettuare un allontanamento – o per verificare la sua impraticabilità – sono molto più brevi.
A ciò si aggiunga che addirittura i minori non accompagnati e le famiglie con minori possono essere trattenuti «per un periodo il più possibile breve», periodo che peraltro la direttiva evita di predeterminare rigidamente.
Se poi si guarda ai meccanismi di controllo apprestati dalla direttiva, il grado di effettività delle – minime – garanzie riconosciute al migrante irregolare si rivela debolissimo.
Per quanto concerne, in particolare, il trattenimento, mentre la versione originaria della proposta di direttiva attribuiva alle autorità giudiziarie
il potere di disporre la custodia, prevedendo solo in «casi urgenti» l’adozione del provvedimento da parte delle autorità amministrative
(e salvo convalida giudiziaria nelle successive settantadue ore), il testo approvato stravolge completamente questa impostazione ispirata all’habeas corpus (ed è del tutto incompatibile con l’art. 13 della Costituzione, dal quale non potrà comunque discostarsi il legislatore italiano): il trattenimento è disposto dalle autorità amministrative o giudiziarie e, nel primo caso, gli Stati membri prevedono che si disponga un pronto riesame giudiziario della legittimità della misura «entro il più breve tempo possibile» dall’inizio della sua applicazione ovvero accordano allo straniero il diritto di presentare ricorso per sottoporre a riesame la legittimità del trattenimento sempre «entro il più breve tempo possibile» dall’avvio del relativo procedimento. Dunque: scompare il carattere eccezionale dell’intervento dell’autorità amministrativa, che viene collocato sullo stesso piano di quello dell’autorità giudiziaria; scompare, nel caso in cui la detenzione sia stata disposta dall’autorità amministrativa, qualsiasi termine certo per l’intervento del giudice, affidato, in buona sostanza, ad un’ampia discrezionalità dei singoli ordinamenti statali; lo stesso intervento del giudice è previsto addirittura come eventuale, nei casi in cui sia rimesso all’iniziativa dell’interessato, evidentemente ostacolata dalla condizione di fatto del detenuto.
Si è detto, tuttavia, che la proposta di direttiva ha almeno il vantaggio di offrire degli standard minimi di tutela per tutti i Paesi europei (compresi quelli che prevedono forme di detenzione amministrativa sine die). È un argomento fallace per almeno due ragioni. Prima di tutto le deroghe che la stessa proposta prevede all’applicazione della normativa sono estremamente significative: si pensi alla definizione del campo di applicazione, che consente agli Stati membri di non applicare la direttiva ad una serie di tipologie di stranieri irregolari, e alla disciplina, a maglie larghissime, delle situazioni di emergenza. Ma, più in generale, è miope (e il pacchetto-sicurezza varato dal Governo Berlusconi lo conferma) giustificare perversioni dell’ordinamento giuridico per inseguire questa sorta di dumping delle garanzie fondamentali della persona che ispira la proposta.
Il punto è proprio questo: la direttiva riguarda sì la condizione dei migranti irregolari, ma, allo stesso tempo, disegna un modello: il modello della amministrativizzazione dei diritti fondamentali della persona; il modello della coercizione della libertà personale in relazione non a fatti lesivi ma a status, a condizioni individuali; il modello del ritorno della supremazia dell’autorità amministrativa sulla giurisdizione e della sterilizzazione della funzione garantistica di quest’ultima.
I modelli, si sa, ispirano i legislatori, orientando le culture e le prassi degli operatori: e così si sviluppa la loro naturale capacità di espandersi, di conquistare ambiti ulteriori rispetto a quelli nei quali sono stati introdotti.
È quanto stiamo già sperimentando nel nostro Paese, dove il modello della amministrativizzazione dei diritti fondamentali ha conosciuto una significativa applicazione con la riforma del 2006 della normativa sugli stupefacenti. La nuova legge, infatti, ha previsto, per il consumatore di stupefacenti, molteplici misure amministrative destinate ad incidere su diritti fondamentali delle persona (compresa la libertà personale), mentre il relativo procedimento applicativo si ispira, chiaramente, a quello previsto per l’espulsione coattiva dello straniero irregolare.
Per questo è necessario guardare alla condizione dei migranti cogliendone la valenza paradigmatica. Diceva Luigi Di Liegro: «nulla come la normativa sugli stranieri ci dice in maniera profonda che cosa siamo». Che cosa siamo e, possiamo aggiungere, che cosa stiamo diventando.