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Come troppo spesso succede in Italia, anche questa volta è stata la cronaca a dettare temi e tempi del dibattito: la vicenda giudiziaria che vede coinvolto don Pierino Gelmini e la Comunità Incontro (compresi i suoi scomposti tentativi di delegittimare l’inchiesta, la difesa di cuore e d’ufficio del suo popolo devoto e l’esortazione della gerarchia episcopale a farsi da parte) si è dissolta come neve sotto il sole d’agosto senza peraltro – come sempre – riuscire ad andare oltre una lettura, non so se solo ingenua o se anche colpevole, disperatamente schiacciata sul gossip.
Il dramma invece è molto più serio perché attiene alla forma e alla sostanza del sistema di intervento sulle dipendenze patologiche in Italia. Il problema non è certamente don Pierino né l’eventuale fondatezza delle accuse di molestie sessuali a lui mosse. Il problema, invece, è il modello di comunità che lui rappresenta e del quale non è certamente l’unico esponente. Non per la denuncia in sé ma per la retorica della leadership ad essa sottesa, per i dispositivi politico-culturali che, attivandosi, si sono rivelati anche a chi già non li conoscesse, la vicenda della Comunità Incontro è paradigmatica, infatti, di un più generale modello di cura che pone gravissimi interrogativi in ordine a due pilastri fondamentali di qualunque pratica di cura: la verità e la libertà.
La verità. È chiaro a chiunque: con la cristoterapia (per quanto rischi di essere riduttiva, la definizione è esemplificativa del modello a-scientifico e pseudoterapeutico del quale Don Pierino è certamente uno dei massimi teorici ed interpreti) la finzione assurge a metodo terapeutico. In quanto inganno scientifico, la cristoterapia non sarebbe neanche troppo diversa dal ben più noto placebo farmacologico, ma è il fatto che essa rientri nel novero delle offerte di cura accreditate e finanziate dallo Stato attraverso il Servizio sanitario nazionale e il Fondo nazionale per la lotta alla droga a suscitare scandalo. Anche volendo soprassedere su tutte le implicazioni epistemologiche e deontologiche connesse, questa è una vera e propria falla nel sistema di tutela pubblica della salute. Una falla della quale, come ogni tabù, non si deve parlare.
La libertà. Il modello in questione si fonda su un escamotage che non solo ci interpella per la semantica della cura che esprime ma addirittura ci provoca per i suoi risvolti profondamente politici: l’idea di salute ad esso sottesa, in quanto moralmente connotata, (re)introduce con forza tra le categorie scientifiche il moralismo. E nel moralismo, per definizione, non c’è libertà. Eppure nonostante un approccio medievale alla cura delle dipendenze patologiche, che riporta il calendario della scienza a ben prima della modernità e della separazione tra salute e salvezza, la Comunità Incontro (e non solo, sia chiaro) ha chiesto e ottenuto cittadinanza e legittimazione. Ecco un’altra falla: il sistema medico italiano, normalmente affetto da evidente tendenza compulsiva alla oggettivazione della malattia nel corpo altrui oltre che attento a zavorrare di evidenze scientifiche il proprio lavoro, ha – impotente o rassegnato, certamente silente – delegato in parte alla nutrita casta sacerdotale dei preti-guaritori il compito di curare. Al di là di ogni evidenza, al di là di ogni controllo.
Con le conseguenze di queste falle e con i silenzi di questi tabù facciamo i conti tutti i giorni (sono la prima causa della paralisi logico-scientifica di questo paese): verità e libertà, infatti, ridefinendosi con necessaria reciprocità, configurano un progetto politico orientato antropologicamente: con l’idea, forte, di un nesso necessario tra disordine fisico e interiore (la malattia) e disordine morale (la colpa) da secoli la Chiesa giustifica, propone e attua politiche di controllo sociale che non hanno uguali nella storia e nel mondo. Ordine fisico, ordine morale, ordine sociale e ordine cosmico stanno tra loro in un continuum che, ininterrottamente, riproduce il sogno, grande, del controllo dei corpi, delle coscienze, delle masse, della storia. Un sogno di dominio che abita le notti delle destre ad ogni latitudine e in ogni tempo.
Che lo si voglia o meno, che faccia piacere o meno, il compito di difendere, con rigore e senza distrazioni, la trincea della laicità delle cure (che non vuol dire neutralità ideologica, sia chiaro, ma idea di salute non moralmente connotata) è un compito politico prima che scientifico. Uno di quei compiti che rendono irrinunciabile la politica. Un compito di libertà e, dunque, di enunciazione della verità. Giacché è vero ciò che scrive Javier Marías in Domani nella battaglia pensa a me: «Quando le cose finiscono ormai hanno un loro numero e il mondo dipende allora dai suoi relatori…».