Una delle prime preoccupazioni manifestate da Giancarlo Caselli in qualità di Direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria è stata per la sorte dei detenuti tossicodipendenti: il carcere non serve, bisogna trovare delle alternative, ebbe modo di dire e di scrivere prima ancora di insediarsi. Caselli ricordava certamente l’impegno del cartello ‘Educare, non punire’ – con il quale decine di associazioni si impegnarono contro la “illusione repressiva” della legge Iervolino-Vassalli – e le ragioni che lo sostenevano, tutte puntualmente verificate dopo la sua approvazione, a partire dallo straordinario incremento delle persone detenute e dei tossicodipendenti tra di esse. Il clima poi era cambiato, c’era stato un pronunciamento popolare nel senso della depenalizzazione del consumo di droghe e grande slancio avevano avuto le alternative al carcere per i tossicodipendenti insieme con la sperimentazione delle forme di custodia attenuata in sezioni o istituti specializzati. Ma la situazione non deve essere di molto cambiata se Giancarlo Caselli, non appena preso contatto con il mondo penitenziario, è tornato a rivolgere in quella direzione la sua attenzione. E infatti, nonostante i diciottomila tossicodipendenti affidati in prova al servizio sociale sulla base di un programma terapeutico-riabilitativo, altrettanti restano nelle patrie galere: troppi per qualsiasi circuito differenziato che non ambisca ad annettersi l’intero sistema penitenziario. C’è qualcosa, dunque, che non funziona nei propositi di decarcerizzazione dei tossicodipendenti. Il punto è che essi confliggono con il cuore stesso della contesa aperta sul tema della sicurezza urbana. ‘Educare, non punire’ prima, il referendum poi, hanno limitato nella misura del possibile la criminalizzazione del consumo di droghe. Un voto del Senato e il ripetuto impegno del Governo ad ottemperare agli impegni presi nella Conferenza nazionale di Napoli ci dicono che qualche passo ulteriore è possibile farlo, ma in questo modo riusciremmo, nel migliore dei casi, ad intervenire a valle di un processo di criminalizzazione che nasce con i reati che stanno agitando le nostre città, reati legati all’approvvigionamento delle sostanze, commessi in gran parte da tossicodipendenti e che non è possibile ridurre senza intervenire sulle loro cause. Di fronte a tali reati infatti la proposta di una più grave sanzione conta assai poco: essa viene solitamente messa nel conto e accantonata, non perché ineffettiva (stiamo infatti parlando di persone che la ‘certezza della pena’ la conoscono per abitudine), ma perché non vengono offerte alternative all’acquisizione criminale dei mezzi per accedere al mercato illegale delle sostanze stupefacenti. Per questo motivo, la decarcerizzazione dei tossicodipendenti – oltre che illusoria in frangenti in cui il sistema delle misure alternative al carcere viene messo in discussione proprio a partire dall’allarme suscitato da reati tipici dei tossicodipendenti – è inefficace, se a monte non interviene un processo di decriminalizzazione della loro vita quotidiana. In questo senso vanno alcuni dei risultati della sperimentazione della somministrazione controllata di eroina in Svizzera e la proposta del Sostituto procuratore milanese Franco Nobili di avviarci anche in Italia sulla stessa strada. Nella riduzione del danno indotto dalla illegalità delle sostanze stupefacenti c’è la risposta forse più incisiva a quella ‘criminalità diffusa’ che agita tanti nostri concittadini. Se la si vuole affrontare davvero non si può fare a meno di passare da qui.