Si è tenuta a Torino, nella sede del Gruppo Abele, una tavola rotonda sui problemi delle prigioni di fine secolo: una realtà che permane drammatica (in soli cinque giorni di questo afoso luglio, tre reclusi si sono uccisi, uno è morto in seguito a uno sciopero della fame) e afflittiva: magari più per cattive volontà, vale a dire distratte e burocratiche indifferenze, che per volontà cattive. Il che non è detto sia un’attenuante. All’incontro erano presenti il neo direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), Giancarlo Caselli, il sottosegretario alla Giustizia, Franco Corleone, il magistrato Francesco Gianfrotta, in procinto di assumere la responsabilità di uno degli uffici centrali del DAP, Mauro Palma, tra i fondatori di “Antigone”, e don Luigi Ciotti. Non è purtroppo possibile dar conto qui dell’intero dibattito, durato alcune ore e ricco di spunti. Una versione più ampia sarà pubblicata in un prossimo numero di Narcomafie, mensile del Gruppo Abele.
A oltre due anni dalla Conferenza nazionale sulle droghe di Napoli, il numero dei detenuti tossicodipendenti è rimasto stabile, circa 14.000: esattamente metà di loro è in carcere per detenzione e piccolo spaccio; l’altra metà per reati diversi, a loro volta strumentali al procurarsi droga per consumo personale. Questa la situazione: come superare l’inerzia legislativa al riguardo?
Luigi Ciotti: Il problema della droga ha sempre scatenato contrapposizioni politiche e ideologiche, con un impoverimento del dibattito sui contenuti, mentre il mondo politico rincorre le emergenze. La Conferenza di Napoli aveva concluso per un rafforzamento degli interventi di riduzione del danno, i servizi “a bassa soglia” in grado di sostenere le persone anche senza imporre percorsi di remissione drastici e immediati; si era poi richiesto di depenalizzare effettivamente la detenzione per uso personale e di scarcerare i malati di AIDS. Solo quest’ultima è diventata legge definitiva, pur tra molti vincoli. In compenso, è passata una norma che prevede il riconoscimento del primariato ai responsabili dei Servizi pubblici per le tossicodipendenze: i piccoli disegni corporativi continuano a ottenere soddisfazione. Diversamente, non appena si parla di riduzione del danno o di depenalizzazione, da più parti si obietta che i tossicodipendenti non sono puniti in quanto tali: il che è smentito dai fatti e dalle cifre.
Che fine hanno fatto le proposte della “Commissione La Greca”?
Corleone: La Commissione, istituita dal ministro Flick, aveva elaborato un testo, a mio parere non del tutto convincente. Adesso il ministro Diliberto mi ha dato l’incarico di definirne uno nuovo. Penso che si debba intervenire sui livelli delle pene (tetti di otto – vent’anni sono altissimi). Vanno poi separate condotte quali la cessione gratuita o la coltivazione domestica da quella di spaccio, e differenziati sostanzialmente i trattamenti delle droghe leggere e pesanti. E imparare a sperimentare con coraggio per ridurre il danno della clandestinità, come ha fatto la Svizzera con l’eroina medica.
Il ministro Diliberto dichiara di perseguire un riformismo concreto: forse un rilievo critico verso un garantismo magari rigoroso, ma spesso inconcludente. Il pragmatismo delle “riforme possibili” è propedeutico, oppure in qualche modo contribuisce a rimandare quelle “grandi riforme”, a cominciare dall’abolizione dell’ergastolo, per le quali anche “Antigone” da sempre si batte?
Mauro Palma: Non credo ci si trovi fronte a una dialettica tra pragmatismo e “pensiero illuminato”. Non entro nel merito dell’opportunità politica di mettere all’ordine del giorno l’abolizione dell’ergastolo, che pure il Senato ha approvato già da un anno. Sollevo un’altra questione: non si possono suscitare nella popolazione detenuta aspettative cui poi non si riesce a dare riscontro. Pur reputando positive le cose, piccole e anche grandi, che si stanno facendo, sono scettico: non le vedo inserite in un programma e in un progetto. L’ultima riflessione forte su finalità e ruolo del carcere è datata 1975. Successivamente, anche molti dei pensieri più avanzati si sono espressi nei termini: “Vogliamo che la riforma sia pienamente attuata”. Eppure, sappiamo bene che il mondo della detenzione è radicalmente cambiato dal ’75: tossicodipendenti, stranieri, marcata connotazione di marginalità urbana di chi entra in carcere (mentre viene meno la tutela sociale), accentuarsi di reclusioni rapide e frequenti, rispetto a cui le progettualità di lunga durata basate sul lavoro, sull’istruzione – cardini della riforma del ’75 – si reggono poco. Oggi non riesco a vedere un’idea nuova di riforma, un modello né per i detenuti né per le professioni, in cui si inseriscano i singoli progetti: così si riaffaccia il modello che nega il detenuto come portatore di diritti. Vedo, invece, un’enfasi, anche un po’ fastidiosa, su molte microprogettualità, piccole “aggiustatine” di un sistema sempre più senza forma.
Il che contribuisce ad accentuare la navigazione a vista. I limiti evidenziati non deriveranno anche dall’assenza di altre condizioni indispensabili: ad esempio, la soggettività e visibilità dei reclusi, un contesto sociale attento e protagonista?
Francesco Gianfrotta: Non credo ci si possa stupire del panorama descritto da Palma: poiché nel carcere si riproduce la realtà esterna, rappresentata da una società e un sistema politico che non riescono a esprimere sintesi. Allora, non è un caso che nel dibattito attuale sul carcere ci si richiami, anche solo come parole d’ordine, alla riforma del ’75, o a quella del 1986, e che tutto si fermi lì. È vero che ci può essere fastidio per lo scarto sempre maggiore tra politiche che intendono alludere a tempi brevi e l’impatto, invece, con burocrazie frenanti, decisioni contraddittorie, assenza di progettualità. Ancora per un po’ di tempo si andrà avanti così, pur con tutti gli sforzi che si possono fare per accelerare singoli progetti: trasformazioni parziali, comunque insoddisfacenti, ma che vanno assunte e realizzate, nei limiti del possibile. È vero che non c’è oggi una dialettica tra pragmatismo e progetto riformatore più ampio, anche perché non è questo il problema e perché il contesto complessivo la rende improponibile. Non che ci si debba accontentare del “riformismo possibile”: voglio dire che giudico positivamente anche una soglia più bassa di riforme e cambiamenti. Che si possono portare avanti perché vi sono circuiti sociali e istituzionali che presentano più facce, contraddizioni interne sulle quali si può lavorare positivamente e concretamente.
Ma chi dirige l’amministrazione penitenziaria ha possibilità di incidere, anche in senso politico e culturale, e non solo come mera gestione della “macchina”?
Corleone: In passato si è esercitato un grande ruolo culturale e politico: penso agli anni di Nicolò Amato, in cui dal DAP si è affrontato il problema della detenzione politica, della dissociazione, delle aree omogenee, della nascita e applicazione della legge Gozzini. Finita quella stagione, il carcere è tornato nell’ombra. C’è poi stato un soprassalto con Michele Coiro, una figura autorevole, che in pochi mesi aveva saputo individuare i problemi principali, compreso quello dell’affettività in carcere; e con Alessandro Margara, figura di grande competenza, che tra l’altro ha lavorato alla stesura del nuovo regolamento carcerario, in dirittura di arrivo. Ora siamo a una fase di svolta, di riassetto generale e di riforme parziali: il riordino del DAP dovrebbe dare nuove prospettive di carriera e motivazione al personale; abbiamo approvato la legge delega sul rapporto tra medicina penitenziaria e Sistema sanitario nazionale; è in discussione la legge sul lavoro ai detenuti. Su 52.000 detenuti, 40.000 derivano da processi di esclusione sociale, mentre il nocciolo duro della criminalità organizzata è numericamente assai ristretto. Certo, possiamo dire che questi 40.000 non dovrebbero stare in prigione, che uno stato sociale efficiente potrebbe evitarlo. Però sono dentro, e quindi ce ne dobbiamo occupare, con un progetto che non sia di mero contenimento. Ma questo va collegato ad una progressiva riduzione dell’ambito di intervento del penale. Per questo è importante intervenire sulla legge antidroga. A parole tutti, o quasi, dicono di volere il diritto penale minimo, ma nel frattempo l’ambito del penale si estende.
Giancarlo Caselli: Basta anche soltanto sfiorare dall’esterno, come finora nel mio caso, la realtà penitenziaria, per rendersi conto dell’enormità di cose da fare. All’interno di questo catalogo infinito occorre forse individuare le priorità che possono avere anche una funzione di volano rispetto al miglioramento complessivo del sistema e puntare su quelle. È una questione di metodo, ma mi pare preliminare. Sul progetto più generale: mi è ancora difficile parlarne, poiché il gruppo di lavoro è ancora in formazione. Nel mio modo di pensare, progetto significa “fare squadra”, lavorare con diverse competenze, mentalità e culture capaci di integrarsi. Credo sia strategico, a parte altri importanti versanti dell’amministrazione, l’investimento sulla polizia penitenziaria. Rispetto ai tempi in cui sono entrato in magistratura, la base di formazione, di estrazione sociale, culturale, forse anche di censo, della polizia penitenziaria è affatto diversa. C’è un personale davvero con motivazioni nuove, diventa centrale la formazione, per creare professionalità e una cultura nuova. Questo significa tempi medio-lunghi, ma l’investimento deve partire subito. Quale progetto, invece, sullo specifico dei tossicodipendenti detenuti? Credo, sostanzialmente, quelli qui già esposti. Far uscire i detenuti tossicodipendenti può rispondere sia alle esigenze di questi particolari soggetti, che spesso hanno bisogno più di cure che non di punizione; sia alle necessità dell’istituzione carceraria, basti pensare al sovraffollamento, che aggrava tutti i problemi e influisce sul lavoro degli operatori; sia, infine, all’interesse della società, che dai percorsi di effettivo trattamento, reinserimento e recupero può realisticamente attendersi una maggiore sicurezza sociale.
L’investimento sulla polizia penitenziaria non fa correre alcuni rischi, stante un sistema sinora scarsamente efficiente e trasparente?
Palma: Anch’io sono convinto che la previsione di carriera vada giocata positivamente nel recupero della polizia penitenziaria all’interno di un progetto. Va però evitata ogni auto-referenzialità di questi passaggi. Perciò, e non solo per la polizia, credo vi sia bisogno di un “occhio esterno”, un monitoraggio del sistema, dei percorsi formativi, anche delle professioni che si vanno delineando. Vedo anche un rischio nella sorta di amnistia che è stata prevista per tutti i provvedimenti disciplinari a carico della polizia penitenziaria: è utile ricercare il consenso, ma bisogna stare attenti a messaggi interpretabili come impunità.
Caselli: Tutte le volte che c’è un nuovo regolamento, un nuovo ordinamento, l’amnistia è regola, sia per l’amministrazione della giustizia, sia per le amministrazioni dello Stato. Direi che la regola generale non può trovare eccezioni in questo caso. In tale provvedimento vedo soprattutto un investimento proiettato sul futuro, per aprire e valorizzare una nuova cultura della polizia penitenziaria.
Le attenzioni sui problemi carcerari sono episodiche fors’anche perché non vi è informazione adeguata. Che si può fare?
Corleone: Va ripresa l’idea di un’inchiesta sullo stato delle carceri in Italia. Che significa fare un’esatta fotografia dei tanti problemi, ma anche dare visibilità e dignità a tante storie. La rubrica della “Piccola posta” di Sofri sul “Foglio” dà uno spaccato illuminante: questa umanità dolente, spesso umiliata che esce dai racconti ci aiuta a capire cos’è il carcere e cosa dobbiamo fare per cambiarlo. E c’è tanto da fare.
Ciotti: Bisogna creare consenso e attivare un’attenzione continuativa, con un deciso investimento sul piano dell’informazione. Lancio, in conclusione una piccola proposta. Il ministero di Grazia e Giustizia promuova una campagna informativa, anche con spot televisivi, come si sono fatti sull’AIDS o sulle droghe, per sensibilizzare sui temi della reclusione e, magari, anche per sostenere questa nuova stagione di cui ha parlato Corleone.