Di questi tempi, mettere al centro del dibattito la ripresa di un lavoro di ricerca, e rilanciare l’ovvia correlazione tra ciò che, con metodo, osserviamo e impariamo, e ciò che proponiamo di fare, appare un atteggiamento eccentrico. Nelle politiche e nei modelli operativi sui consumi siamo, infatti, forse al minimo storico di questo nesso virtuoso conoscenza-azione, nonostante poi si invochi da più parti – anche dal neo Dipartimento antidroga – la cultura dell’evidence based. Anzi, più la si invoca, più si prende la via del controllo law&order. Senza però che alcuna evidenza vi sia dell’efficacia di quest’ultimo approccio ed anzi, cosa curiosa, l’evidenza remi controcorrente, come una seria analisi delle politiche Onu sta da tempo dimostrando. O, per stare a casa nostra, come dimostrano i dubbi e le opposizioni alle novità dei controlli sulla guida in stato di alterazione e ebbrezza portate non dai “soliti” critici dell’approccio punitivo, ma anche da molte di quelle associazioni che da tempo si battono per la sicurezza sulle strade, ed hanno accumulato scienza ed esperienza attorno agli approcci più efficaci.
Staccata dal campo strettamente medico, della brain disease, dell’assunzione di droghe come malattia del cervello, l’evidenza sembra sparire dal vocabolario e dalle prassi. È noto quanto sia debole, nel nostro paese, la ricerca di tipo sociologico, antropologico, culturale sul consumo di sostanze, e quanto debba ancora arrancare l’evidenza aneddotica e narrativa sulla via del proprio riconoscimento. È anche noto come questa difficoltà non sia una questione “scientifica” ma politica e culturale, e come i diversi paradigmi dominanti portino con sé la continua riproposizione di campi di ricerca che sono a loro stessi coerenti, continuando, in un meccanismo che si autoalimenta all’infinito, ad escludere gli altri, quelli dettati da un altro sguardo. Questa “evidenza” si trincera e si protegge da quegli sguardi che potrebbero metterla in crisi. Ci si chieda perché in Italia non esista una ricerca per la valutazione degli esiti molteplici delle politiche pubbliche, un elenco di indicatori sulla cui base, di anno in anno, si possa aggiustare il tiro. Ci si chieda perché solo lo scorso anno, prima della caduta del governo di centrosinistra e su pressione del mondo degli operatori, sia stata commissionata ad alcune università italiane una ricerca degna di questo nome sugli esiti delle sanzioni amministrative comminate ai consumatori.
Per questo, Forum Droghe ha deciso di fare un passo in più organizzando un seminario sui consumi di cocaina tenutosi a Firenze a fine agosto. Per dare una spinta all’evidenza in campo sociologico, antropologico, culturale. Per declinare parole chiave come stile di consumo, setting di consumo, processi autoregolativi, apprendimenti sociali, variabili di contesto. E per vedere se e come queste possano dialogare con altri sguardi, ma partendo da una stessa dignità e cittadinanza. Un processo dentro cui accadono molte cose importanti: si valorizza il sapere di chi consuma, quello di chi opera sul campo, quello di chi fa ricerca e sistematizza e accredita uno sguardo scientifico. Una molteplicità complessa di cui, nell’ambito di un fenomeno come il consumo di sostanze, non appare credibile fare a meno. Uno sguardo guidato da una epistemologia democratica e operativa, che in tanti campi da decenni ormai appare la sola adeguata alla moderna complessità, ma che nell’ambito delle droghe fa fatica a prender posto, ricacciata nell’arcaico mondo dello sguardo unico del giano bifronte medico-penale.