Nell’ultimo decennio, i cambiamenti nella tipologia dei tossicodipendenti, nelle sostanze d’abuso e nelle politiche dei servizi hanno scosso anche il palazzo monumentale delle comunità residenziali. Più numerose che in qualsiasi altro paese, le comunità italiane hanno occupato dai primi anni ’80 gran parte dello spazio destinato alla presa in carico del problema emergente della dipendenza da eroina. Lo hanno fatto in un panorama d’interventi ancora molto povero, ponendosi come soluzione unica in decisa opposizione alle terapie farmacologiche (leggi somministrazione di metadone). Ben presto, presso l’opinione pubblica, si fa strada l’immagine della comunità come istituzione salvifica che offre un modello di vita virtuoso in grado di redimere i ragazzi traviati dalla droga.
Indebolite dal fiorire di nuovi trattamenti di tipo non residenziale e ridimensionate dalla modestia dei loro stessi risultati, le comunità vedono tramontare il mito della loro totale ed esclusiva efficacia già nella metà degli anni ’90; spinte dalla necessità di riorganizzare il loro operato per contrastare il forte calo delle richieste d’ingresso molte di loro accettano cambiamenti che investono metodologie e pratiche operative, passando da istituzioni che lavorano in un regime di autarchia e di autoreferenzialità a servizi complementari che entrano in rapporto con il più ampio sistema dei servizi del territorio. Di qui l’integrazione del programma residenziale con interventi attuati da altri enti (non ultimi quelli farmacologici tanto aborriti in passato), l’apertura a tipologie di utenti diversi dal passato, l’innalzamento della professionalità degli operatori, la «contaminazione» con altri modi di pensare la dipendenza patologica. Sulla strada del cambiamento, a procedere più speditamente sono le comunità meno connotate in senso ideologico, quelle cioè che non hanno saldato la loro identità ai diktat di un capo carismatico, ma che, al contrario, hanno operato sin dall’inizio cercando di fondare il loro metodo sulle scienze dell’uomo. Sempre alla ricerca di un equilibrio tra continuità e innovazione, le comunità più professionalizzate si sono evolute personalizzando le modalità e i tempi dell’intervento, differenziando i trattamenti sulla base di valutazioni diagnostiche più accurate, declinando in maniera più variegata obiettivi e risultati.
È questo il caso della Comunità di Città della Pieve, servizio residenziale del Comune di Roma sito nella cittadina umbra da cui prende il nome e gestito dalla Cooperativa Sociale «Il Cammino». La Comunità di Città della Pieve ha affrontato perciò in maniera sistematica lo studio delle caratteristiche degli utenti in programma e dell’efficacia del trattamento cui sono sottoposti. La descrizione del metodo di lavoro e della sua evoluzione, la disanima della condizione psico-sociale degli utenti in carico e l’indagine sugli esiti e sui risultati del trattamento sono i temi trattati in un volume attualmente in corso di pubblicazione (Metodo e risultati di una comunità per tossicodipendenti. L’esperienza di Città della Pieve, FrancoAngeli).
Estrapolando alcuni dati dall’attività di ricerca descritta nel libro, emerge l’identikit di 121 persone che hanno iniziato un trattamento residenziale nel periodo compreso tra il 1999 ed il 2002. L’età media al tempo del loro ingresso in comunità è di 33,5 anni (età salita a più di 36 anni nel 2007). Si tratta di una popolazione il cui titolo di studio si ferma al diploma di scuola media inferiore nel 67,5% dei casi, affetta da malattia cronica nel 45,5%, con 10,5 anni di tossicodipendenza alle spalle e un uso continuativo della sostanza primaria che inizia intorno ai 19 anni. La sostanza d’abuso è l’eroina nel 50,4% del campione e la cocaina nel 7,5% (secondo un recente aggiornamento, nel trienno 2005-2007, la percentuale di cocainomani è salita al 21%), mentre il 41,3% dei soggetti usa più sostanze contemporaneamente (poliabuso). Il 57% del campione ha avuto almeno un’overdose nel corso della vita, mentre il 65% è reduce da almeno un altro trattamento residenziale. I problemi con la giustizia sono piuttosto diffusi: il 65,3% ha ricevuto almeno una condanna per reati connessi al comportamento d’abuso, e la media dei mesi trascorsi in carcere è di 25.
Circa l’area delle relazioni familiari: ben il 74,2% del campione ha familiari con problemi di alcoldipendenza, il 61,7% ha familiari che abusano di sostanze stupefacenti ed il 45,8% ha in famiglia persone affette da problemi mentali. Questi ultimi numeri crescono se riferiti al campione femminile, ma è soprattutto nell’area delle violenze subite e della condizione psichica che le donne manifestano un tasso più alto di sofferenza. Il 47,6% ha infatti subito violenze sessuali nel corso della vita (questo dato è sicuramente sottostimato in quanto raccolto durante i primi giorni di residenza in comunità); il 76,2% ha avuto violenze fisiche ed il 71,4% ha compiuto almeno un tentativo di suicidio. Rispetto ai maschi la popolazione femminile è meno numerosa (17% del campione), ma presenta un profilo di maggiore gravità misurato sulla base di precisi indicatori di salute bio-psico-sociale.
L’indagine per l’accertamento dei risultati (follow-up) è stata eseguita intervistando 63 ex-utenti a distanza di circa 30 mesi dalla loro dimissione dal programma. Emerge che 30 soggetti (il 47,6%) hanno conservato una condizione drug-free dopo il trattamento, mentre delle 33 persone che hanno di nuovo consumato, solo 16 (il 51,5%) risultano ancora tossicodipendenti al momento dell’intervista. Ciò significa che 17 soggetti, dopo un periodo di «ricaduta» nell’uso di sostanze, hanno riguadagnato una condizione drug-free spontaneamente o a seguito di nuovi trattamenti (questi ultimi hanno riguardato il 13,3% dell’intero campione). La sostanza illegale più utilizzata è di nuovo l’eroina (37,5%), mentre un 8% di persone usa esclusivamente cannabis. Risulta inoltre che il 69,8% del campione ha svolto un’occupazione a tempo pieno, che non vi sono procedimenti penali in corso per reati commessi dopo la fine del programma, che il 42,9% ha provato stati di forte ansia e il 34,9% ha sofferto di gravi forme di depressione.
Ed è proprio lo stato di depressione a decretare una più alta probabilità di ricorso alle sostanze dopo il trattamento, col 68,2% di «ricaduti» tra coloro che ne hanno sofferto. La condizione drug-free ricorre nell’80% di coloro che hanno concluso il programma, nel 19% di coloro che lo hanno interrotto precocemente e nel 42,9% di coloro che lo hanno interrotto in fase avanzata. In definitiva, a misurare l’efficacia del programma non è solo la completa remissione dell’uso delle sostanze psicoattive, ma anche il minore ricorso alle stesse: il processo di emancipazione dalle sostanze dopo la comunità, infatti, non è sempre lineare, ma segue un andamento ciclico che alterna astinenza ad episodi di intossicazione con però delle differenze evolutive rispetto al passato: ossia con un viraggio verso consumi più controllati, stili di assunzione meno invasivi, uso di sostanze meno pericolose.
Anna Addazi