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I servizi per le tossicodipendenze vivono ora in una sorta di era “post-eroinoica”: continuano a confrontarsi e a confliggere a partire da quello che di fatto è un gruppo particolare di consumatori non rappresentativo della varietà dei consumi. Non perché l’uso di eroina sia scomparso, tutt’altro, ma perché non è più valido quel sistema di domanda-risposta condizionato da allarme sociale ed esigenze di controllo, con le sue armi più o meno spuntate: il metadone, la buprenorfina, le comunità di accoglienza in tutte le loro mille declinazioni e persino, occorre dirlo, il mondo degli operatori che fanno riduzione del danno cercando di contattare gli utenti nei “loro” luoghi (il cosiddetto outreach).
L’arrivo a metà degli anni ‘90 della cocaina in strada a costi abbordabili ha provocato una modificazione dei consumi conosciuti fino a quel momento, mettendo in crisi i diversi servizi, spesso incapaci di riformularsi (dai Sert alle comunità, dalle unità mobili ai drop-in): termini come doppia diagnosi, border line, comorbilità hanno via via abitato le loro paure e frustrazioni. Essi hanno continuato a rivolgersi prevalentemente a quel gruppo di 200.000 persone più o meno conosciute e “agganciate”, caratterizzato da un lento turn-over e da un progressivo innalzarsi dell’età media; senza che vi sia stato alcun passaggio di saperi, culture, esperienze da questi consumatori “storici” al policonsumatore odierno, diverso se non antitetico nell’approccio con le sostanze, nella loro gestione, nelle relazioni affettive, nella situazione economica e nel rapporto col lavoro, nel rapporto col sistema penale: in definitiva, diverso nella percezione sociale e nell’auto-percezione.
Si tratta di una “maggioranza silenziosa” che alcune stime indicano intorno ad un milione e mezzo di persone, per le quali non solo perdono di significato categorie come presa in carico, trattamento, incontro, ma si rivelano inadatti anche gli strumenti tradizionali del lavoro di strada, pensati per incontrare persone che eleggevano luoghi reali o virtuali identificabili come spazi di identità, a fronte invece di un consumo diffuso che non costituisce un tratto identitario né caratterizza una particolare cultura o gruppo sociale. Anche Inpud (International Network Of People Who Use Drugs, network ed evoluzione moderna delle associazioni di consumatori) fatica ad attrarre e coinvolgere i consumatori di cocaina, nonostante sia capace di proporsi come gruppo di attivisti a livello mondiale e di coinvolgere consumatori di sostanze differenti, di aprire confronti con i cocaleros o di fare pressione e promuovere istanze presso le istituzioni internazionali.
Si sviluppano perciò servizi differenti, non connotati, servizi con caratteristiche più vicine a quelle degli ambulatori specialistici, liberi dall’ombra dello stigma che in qualche misura continua ad aleggiare intorno ai luoghi tradizionali, a cui però continuano a rivolgersi e si rivolgeranno anche in futuro perlopiù le persone con un consumo divenuto problematico. L’approccio a questa popolazione non considerata, a torto o a ragione, un allarme sociale, libera per un verso i servizi dal mandato implicito del controllo, per l’altro dall’ansia salvifica: ma proprio per questo si deve fare i conti con la tentazione di ridurre le risorse dedicate alle droghe, giacché l’ordine pubblico appare meno minacciato. Inoltre sono scarsi gli strumenti a disposizione. Questo porta a prendere in considerazione, ricercare e sollecitare, con attese quasi messianiche, risposte farmacologiche come il vaccino o supposti agonisti/antagonisti di dubbia applicabilità: soluzioni tutte da sperimentare, insieme ad approcci di utilità verificata come la terapia cognitivo-comportamentale, o i corsi di auto-regolazione.
Si cerca, a fatica, di riattrezzarsi per rispondere ai “nuovi” consumi di eroina, si riformulano le strategie del lavoro di strada per trattare la poliassunzione in una logica di limitazione dei rischi, riattivando e rimodulando le unità mobili in alleanza con organizzatori e frequentatori di eventi legali ed illegali; si istituiscono dipartimenti
ad hoc, avvalendosi delle opportunità offerte dal web sia come mezzo che come luogo. Ma la domanda principale riguarda l’approccio da utilizzare con un consumo di massa: per ragioni banalmente epidemiologiche varrebbe la pena di considerare un approccio ispirato alla “prevenzione diffusa”, sull’esempio di altri consumi come l’alcol o il tabacco, o nell’ambito di comportamenti a rischio relativi alla sessualità o alla guida e che spesso si intrecciano fra loro. In questa luce c’è bisogno di una prevenzione intesa come educazione generale a comportamenti più sicuri, non più selettiva verso gruppi specifici.
Un approccio di questo tipo implica l’accettazione consapevole del consumo come parte integrante del comportamento umano, da sempre nodo storico e conflitto insoluto. Accettazione richiesta ma forse anche facilitata dalla peculiare trasversalità e diffusione del consumo attuale di cocaina.