C’era una volta Bologna la dotta, una città abitata da molte culture, da cittadinanze plurali, capace di tessere reti civiche, saper fare sociale, percorsi negoziali su singoli problemi. Capace di attivare strumenti di ascolto e saperi diffusi, forme conviviali di relazione: solidali, pattizie e comunitarie. C’era piazza Verdi, l’osteria delle dame, via del Pratello: spazi di costruzione di “habitus”, percorsi identitari di narrazioni collettive, luoghi insieme monumento e documento. C’era la street antiproibizionista.
C’è adesso una Bologna che non sa sillabare l’alfabeto emotivo, affamata di soluzioni, di risposte e mai di domande, vigilante in maniera aggressiva, intollerante, ostaggio di dispositivi securitari, che si vorrebbe per lo più abitata da consumatori passivi, appendici della democrazia televisiva. Una città ubriaca di esclusione sociale, inospitale, ma dipendente dai profitti tratti dalla popolazione studentesca, incapace di trattare i modelli conflittuali della partecipazione, di innescare decisioni comuni inclusive delle differenze.
C’è un sindaco-sceriffo che sulla strategia retorica della legalità e della sicurezza applica un modello neo-autoritario sul quale preferisce accordarsi con Alleanza Nazionale e l’offensiva fondamentalista dei vertici della Curia, anziché con la propria giunta di sinistra all’indomani della Street Space Parade del 29 settembre scorso. Promossa dal Livello 57 e da una rete di collettivi e realtà antagoniste tra cui l’Xm24, il Ca.Cubo, il Comitato per la riapertura dell’ex-sottotetto e dedicata ad Alberto Mercuriali, agronomo suicida perché trovato in possesso di una modica quantità di droga.
C’è Cofferati che richiede più poteri di polizia ai sindaci e dispiegamenti di forze dell’ordine spropositati, un governatore incapace di costruire un disegno comune di trasformazione e di innovazione sociale e politica, che sgombera centri sociali, vieta la libertà di dissidenza, reprime i comportamenti non conformi, proibisce gli stili di vita non omologanti, segrega, reclude, espelle, ma concede licenza di saccheggio alla privatizzazione e mercificazione dei beni comuni.
Al “just say no!”, il collettivo “Open the space” ha risposto con una settimana di pratica militante contro la sanzionante e punitiva politica proibizionista e securitaria cittadina, gli sgomberi e le nuove forme di controllo sociale, per la riappropriazione di spazi e tempi di vita, di forme di socialità libere dal controllo. Alle Zone a traffico limitato e a ordini discorsivi egemonici preferiamo rivendicazioni resistenti e la complessità contraddittoria delle relazioni umane. Stimolare una cultura dell’uso di sostanze psicotrope, che non si ponga in un semplice rapporto di opposizione, di cura, ma di accettazione per quello che ha di costruttivo. Comprendere da che visione del mondo proviene, quale agglutinazione di senso procura, sapere cosa assumere, conoscere gli effetti e i danni, ma questo sguardo esige lavoro, formule nuove e non ebbrezza del potere.