Con lo sciopero della fame, annunciato per il prossimo 1° dicembre, sono ancora gli ergastolani a imporre all’attenzione della politica e dell’opinione pubblica l’abolizione dell’ergastolo. Dopo la lettera al Presidente della Repubblica, nella quale ognuno dei 310 firmatari, “stanco di morire un pochino tutti i giorni” chiede che la sua condanna sia tramutata in pena di morte. Una richiesta paradossale? Non liquiderei così facilmente la constatazione vissuta che quel “fine pena mai” fa della vita un morire poco a poco, e del carcere una negazione di umanità.
Ora molti di loro mettono in gioco i loro corpi, la loro salute. Alcuni, circa 20, hanno detto che proseguiranno lo sciopero finché non avranno una risposta politica. Chiedono che della questione si discuta in Parlamento. Vi sono i disegni di legge, presentati da Rifondazione comunista alla Camera e al Senato. Vi sono le linee di riforma del codice penale della Commissione Pisapia, ma non sappiamo se, quando, e soprattutto come, verranno tradotte in disegni di legge dal Ministro della Giustizia. A favore della richiesta vi è la volontà politica, espressa dalla Commissione giustizia del Senato, di affrontare comunque la riforma del codice penale a gennaio. Anche se non saranno pervenute le proposte del governo.
Il problema è che l’orientamento prevalente, in Parlamento come nella società, è contrario. Con immagine efficace Patrizio Gonnella (il manifesto 1/06/07) ha scritto che l’opinione diffusa è piuttosto quella di trasformare tutti i detenuti in ergastolani. È l’effetto a catena della tolleranza zero: più questioni affrontate come crimini, più carcere per più reati, pene più lunghe, più ergastolo. Nell’intento, fallace, di tracciare una linea sempre più marcata tra normalità e devianza criminalizzata. Rendere più sicura – il che vuol dire, anche più passiva – la prima, resecando dal suo corpo le parti infette. Con espulsioni e detenzioni. Alternando e sommando l’una e l’altra misura.
Se questo è il contesto, bisogna riconoscere che l’abolizione dell’ergastolo contrasta con il senso comune. Non importa se costruito ad arte. Tuttavia la campagna “Mai dire mai” può suscitare attenzione. Magari per alimentare le grida contro un sistema penale troppo “garantista”, ancor più contro le ideologie massimaliste pro-criminali della sinistra radicale. Anche per questo è importante che abbia rilievo politico.
Ed è proprio il nesso con questo clima politico pervasivo e pericoloso, che dovremo mettere in evidenza. Avendo la capacità e la forza di aprire un confronto serrato su crimini e paure, giustizia e pene. Le parole e gli atti dei detenuti possono aiutarci ad infrangere la separatezza, e quindi l’ignoranza sulle carceri. A cominciare dal fatto che gli ergastolani sono 1.294, l’8% dei reclusi, spesso nelle sezioni di Alta sorveglianza o di regime speciale. Non è perciò vero che, grazie ai benefici, ormai nessuno sconta più di 7-8 anni effettivi.
Ma i principi non possono non essere la bussola del confronto. L’ergastolo contrasta con i fini della pena, scritti in Costituzione, di riabilitazione e reinserimento sociale del condannato. Si dice che per i delitti più efferati serve un deterrente altrettanto duro. Se fosse così, le società dove si squartavano i condannati sarebbero quelle che hanno avuto meno crimini. Come è noto si è smesso di ricorrere a supplizi e pubbliche esecuzioni, perché non ottenevano il risultato sperato di sedare violenze e rivolte.
Vale tuttora, anche per la pena di morte. Abolire l’ergastolo sarebbe coerente con la civiltà del diritto e delle pene, della quale l’Italia è stata autorevole portavoce all’Onu, ottenendo l’importante risultato di una moratoria della pena di morte. Il potere di punire non può spingersi fino ad appropriarsi di una vita. Mai. Né con una esecuzione, né con una perpetua detenzione. È questo il Mai da scrivere nei nostri codici.