I numeri sono (quasi sempre) inoppugnabili. Non così la loro interpretazione. È questo il caso dei dati statistici che il Dipartimento della Pubblica Sicurezza ha recentemente inviato alla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati, la quale ha in corso una “Indagine conoscitiva sullo stato della sicurezza in Italia”. Cifre che, secondo il ministero dell’Interno e la polizia, evidenzierebbero «criticità» che vengono messe in relazione con l’indulto varato nel 31 luglio 2006.
Così come avviene per parole e frasi che, estrapolate dal loro contesto, possono essere malintese e risultare fuorvianti, così trarre conclusioni e stabilire correlazioni sulla base di dati limitati risulta azzardato. Pure, dal Viminale viene affermato che «nel periodo agosto-ottobre 2006 si registra, a livello nazionale, un tendenziale incremento dei reati predatori» rispetto all’analogo periodo dell’anno precedente. La crescita viene quantificata in 1.952 rapine e 238.830 furti e sottolineata anche in quanto «fino al mese di luglio tali fenomeni presentavano una leggera flessione rispetto all’anno precedente». Sempre secondo il ministero, gli altri reati mostrano invece un lieve decremento.
Il ragionamento, in apparenza, potrebbe filare. Se non fosse che, appunto, per ricavare letture minimamente fondate, le cifre vanno necessariamente lette nelle loro sequenze storiche e nel medio-lungo periodo. Si può, ad esempio, osservare (avendo come fonte lo stesso ministero dell’Interno, con le Note sulla sicurezza in Italia presentate nell’agosto 2006), che anche negli anni precedenti, per quelle tipologie di reati, si era verificata una crescita nel secondo semestre. Nel 2004 i furti sono stati 702.147 nel primo semestre e 764.435 nel secondo; nel 2005 748.047 nel primo semestre e 754.937 nel secondo; nel primo semestre 2006 sono diminuiti a 709.895. Parzialmente diversa la curva delle rapine: 22.588 nel primo semestre 2004, 23.677 nel secondo; 23.718 nel primo semestre 2005, 22.160 nel secondo; 22.091 nel primo semestre 2006.
Ma le comparazioni andrebbero effettuate su periodi più significativi e soprattutto non collimanti con quelli della durata dell’una o dell’altra maggioranza di governo, come invece fa un precedente Rapporto del Viminale (Lo stato della sicurezza in Italia, dell’agosto 2005). Da cui, riguardo ai furti, si rileva che nel periodo luglio 2001-giugno 2005 si è registrata una flessione del 4% circa rispetto al quadriennio luglio 1997-giugno 2001 (5.453.752 contro 5.684.800), con una inversione della tendenza alla crescita manifestata in quest’ultimo periodo (+4,4%) rispetto ai 48 mesi precedenti (5.444.268 nel luglio 1993-giugno 1997).
Il dato vero è che – in un quadro di moderata crescita dei reati complessivamente denunciati nel decennio 1995-2005: +12,1% – l’andamento è altalenante, con continue piccole curvature in alto e in basso. Ma se allunghiamo il periodo di esame, la tendenza appare invece al ribasso, in particolare per alcune tipologie di reato. Ad esempio, se i furti erano stati 1.702.074 nel 1991, sono scesi a 1.480.775 nel 1999 e a 1.466.582 nel 2004, mentre il dato relativo al 2005 indica un aumento a 1.502.984.
Il “trucco” spesso usato è quello di aggregare i dati per l’uno o l’altro lasso di tempo (l’anno, il biennio, quadriennio, il decennio, oppure appunto pochi mesi), così da “far dire” ai numeri ciò che politicamente in quel momento si ritenga conveniente: vale a dire una crescita oppure una diminuzione dei reati. Con molti rischi e altrettante imprecisioni: ad esempio, i dati relativi al 2004, 2005 e 2006 sono disomogenei rispetto a quelli degli anni precedenti, perché sono stati modificati il sistema e l’universo di rilevazione. Peraltro, all’aumento dei reati denunciati non necessariamente corrisponde un aumento della delittuosità, potendo dipendere unicamente da una maggiore propensione alla denuncia del reato subito e dunque da una riduzione della cosiddetta “cifra oscura”, vale a dire dei delitti che non vengono registrati.
Fatto sta che secondo un recente Rapporto Crimine e sicurezza in Europa, finanziato dalla Commissione Europea, l’Italia sarebbe il Paese più sicuro dell’Unione, quanto a rapine e aggressioni.
Viene da ricordare un ex direttore generale delle carceri, Francesco Di Maggio, allorché dichiarò che i dati statistici sugli istituti penitenziari e sui detenuti erano privi di fondamento e inverificabili.
Forse lo stesso si potrebbe talvolta dire relativamente alle statistiche criminali. Vi è da riconoscere che il ministero dell’Interno, anche nell’ultimo Rapporto, invita a prudenza e cautela nel valutare i dati, ma in sostanza dice e non dice: «Se è vero che non è possibile stabilire un diretto rapporto causa-effetto tra la liberazione anticipata di molti detenuti e l’aumento dei reati predatori […] tuttavia non può negarsi, in via generale, che le complessive esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica […] impongono, assieme ad un alto livello di attenzione e di impegno da parte delle forze dell’ordine, anche mirate misure di rafforzamento del sistema penale». E sposta – con qualche ragione – la responsabilità degli allarmismi sui media: «Va detto che i dati statistici sull’andamento della criminalità non indicano un peggioramento della situazione tale da ingenerare una sensazione di insicurezza generalizzata, quale si registra negli organi di stampa». I quali, in maggioranza, già all’epoca del dibattito parlamentare si distinsero per una battente campagna contro l’indulto.
D’altra parte, quando l’oggettività delle cifre smentisce i ricorrenti allarmi, c’è pronta la carta di riserva, perché per gli imprenditori politici della paura tutto fa brodo. L’ha di nuovo tirata fuori ultimamente Luciano Violante: «Per il cittadino è importante non solo la sicurezza in sé ma anche la percezione della sicurezza». L’intervista all’autorevole esponente Ds-Pd era significativamente titolata «Nella nostra cultura troppo perdonismo». Sarà. Ma solo se si osserva il mondo dall’alto delle stanze della politica e dei Palazzi.