Esattamente sette anni dopo il lancio di Enduring Freedom, primo atto della guerra al terrorismo su scala planetaria, c’è di nuovo l’Afghanistan nel mirino della coalizione occidentale. In occasione del meeting informale dei Ministri della Difesa dei Paesi aderenti alla Nato, tenutosi gli scorsi 9 e 10 ottobre a Budapest, è stata infatti sancita la possibilità di affiancare militarmente le forze afgane nell’azione di contrasto alla produzione e al traffico di oppio.
Come è noto la guerriglia talebana è legata a doppio filo al narcotraffico (che garantirebbe agli “studenti di Allah” tra i 60 e gli 80 milioni di dollari annui) e sembra dunque che si voglia ricorrere alle maniere forti, dopo anni di indifferenza.
Le sette province meridionali dell’Afghanistan coprono oggi il 90% circa della produzione mondiale di oppio, ma ciò che più impressiona è che proprio a partire dal 2002, da quando cioè circa 50mila militari della Nato controllano il suolo afgano a supporto del governo Karzai, i dati dell’Onu indicano un’autentica esplosione (fino a 193mila ettari coltivati ad oppio e oltre 8mila tonnellate nel solo 2007).
L’apparente paradosso si spiega, oltre che con le diverse priorità della coalizione occidentale, con politiche di intervento dell’Unodc altamente inefficaci.
Al di là del famigerato piano adottato nel 1998 dall’Onu per cancellare la droga dalla faccia della terra in 10 anni – prima visionario, poi fallimentare – gli unici fattori che hanno determinato un calo della produzione di oppio in Afghanistan nell’ultimo decennio sono stati la fatwa del mullah Omar, che nel 2000 sospese per un anno le coltivazioni, presumibilmente in ragione delle ingenti riserve accumulate negli anni precedenti, e le periodiche siccità che affliggono la regione.
La rinnovata capacità militare della guerriglia talebana, testimoniata da numerosi attentati e da azioni maggiormente incisive, spinge nuovamente l’Afghanistan al centro dell’agenda dei Grandi, acuendone però le divisioni in merito alle strategie da perseguire.
L’accordo di Budapest è infatti il frutto di una delicata mediazione che ha consentito ai Paesi promotori (Usa e Gran Bretagna) di superare le resistenze di quanti – Germania e Spagna, in particolare, ma anche Francia e Italia – esprimevano perplessità sull’aumento delle risorse da impiegare e sul pericolo di nuove vittime civili.
Più che il compromesso – che prevede la libertà per ciascun Paese di aderire o meno alle azioni militari (ed il governo italiano ha già fatto sapere per bocca del ministro della Difesa Ignazio La Russa che non parteciperà) – il vero nodo è però rappresentato dalla natura e dalla legittimità di tali interventi.
Sembra infatti che puntando a smantellare il sistema di raffinazione e smercio dell’oppio, l’obiettivo principale degli interventi saranno i laboratori e le reti di distribuzione dei trafficanti, mentre le azioni militari non dovrebbero coinvolgere le piantagioni di papavero (unica fonte di sussistenza per il 10% della popolazione afgana) .
Quanto invece al contesto normativo, se l’iniziativa bellica della Nato contro i Talebani trova il proprio fondamento giuridico nell’art. 5 del Patto Atlantico – che in caso di attacco obbliga alla reciproca assistenza, anche militare, tutti i Paesi dell’alleanza – difficilmente la medesima norma potrebbe giustificare azioni militari nei confronti di civili. ?Nel dubbio qualcosa (e qualcuno) si è già mosso.